Nel nostro Paese i salari sono i più bassi, e l’orario di lavoro il più lungo, la disoccupazione, la precarietà di vita e di lavoro dei giovani sono fuori controllo, abbiamo un numero spaventoso di infortuni mortali e di malattie professionali, il lavoro nero e schiavizzato non sono contrastati, i diritti sociali e civili arretrato, l’elusione e l’evasione fiscale raggiungono cifre da capogiro. Il nostro territorio è saccheggiato dalle continue speculazioni, l’inquinamento è a livello di guardia, l’utilizzo delle fonti fossili non si riduce in tempi utili. La transizione ecologica e ambientale non trova concretezza.
Nel frattempo è in atto una pericolosa involuzione democratica fondata sul mancato rispetto del ruolo del Parlamento e del dettato costituzionale, persino nel dibattito sull’elezione e i tempi dell’incarico del prossimo Presidente della Repubblica. E in questa realtà sociale e politica il presidente del Consiglio, Mario Draghi, si fa beffe del sindacato e del mondo del lavoro.
Il governo dei “migliori” e di una falsa “unità nazionale”, del presidente banchiere tecnocrate solo al comando, ha già convenuto con l’Europa e i partiti la quantità e la destinazione delle risorse, circa 30 miliardi di euro, di una legge di bilancio che, a differenza di altre, dovrebbe essere equa e distributiva. Non lo sarà, vista la continuità con il passato e la scarsezza di risorse per il mondo del lavoro rispetto alle richieste del sindacato.
I piccoli aggiustamenti saranno più di facciata che di sostanza, e non cambieranno la natura e l’indirizzo politico e sociale della legge di bilancio.
Dall’incontro del 16 novembre tra sindacato e governo, dopo che Cgil Cisl Uil hanno riproposto le richieste contenute nelle piattaforme unitarie, è uscito molto fumo e poca sostanza: solo l’impegno ad aprire nuovi tavoli di confronto, mentre la legge di bilancio si avvia ormai verso l’approvazione, con il possibile ennesimo ricorso al voto di fiducia, dentro un patto politico nell’esecutivo, in un Parlamento svuotato di ruolo.
Dopo oltre sei mesi di richieste al governo di un reale confronto di merito sulla legge di bilancio e sulle emergenze del Paese, il presidente del Consiglio fa l’illusionista. Rimanda ancora, come se i tempi fossero illimitati e non urgenti, impegnandosi a un ruolo attivo su alcuni temi - cosa significhi non è dato sapere - e all’apertura di tavoli di confronto sulle questioni più rilevanti, dalla previdenza ai temi fiscali. Si “impegna” pure a un secondo tavolo di riforma della legge Monti-Fornero, da collocare nei primi giorni di dicembre. Coerenza e correttezza vorrebbero che ciò avvenisse a bocce ferme, e non con la cancellazione della pur imperfetta quota 100 sulle pensioni, come gli hanno chiesto Confindustria e i mercati. In sostanza una vacua disponibilità al confronto, peraltro frutto del timido avvio della mobilitazione sindacale.
Insomma rinvii, promesse prive di concretezza, e la richiesta del governo di non proclamare lo sciopero, in cambio di una disponibilità al confronto che cerchiamo e non otteniamo da tempo.
In compenso, a fronte della promessa di “riformare” la legge Fornero, si procede introducendo quota 102, un’elemosina sul futuro dei giovani, sulla precarietà di vita e di lavoro, con una spiccata spinta verso la privatizzazione e il terzo settore. Poco o nulla sulla sanità pubblica, sulla pandemia e la scarsità di personale che sta mettendo ancora in crisi il sistema di prevenzione e di cura, sulla scuola e l’istruzione pubblica e sui rinnovi dei contratti; nulla sugli ammortizzatori sociali, se non una certa propensione verso le proposte padronali di scaricarne i costi sul sistema fiscale. Degli 8 miliardi a disposizione per la riduzione delle tasse, governo e partiti vogliono che una parte consistente non vada verso le buste paga dei lavoratori ma, ancora, verso le imprese e le varie corporazioni.
Il tempo dei rinvii e delle illusioni dovrebbe essere finito per tutti! E dovrebbe essere finita, almeno per il sindacato, la falsa teoria dei due tempi. Senza cambiamento del paradigma, della visione, ci sono solo i “bla bla bla”, come alla Cop26 sul clima.
Siamo sindacalisti della Cgil e di sinistra, conosciamo il valore della mediazione, ma sappiamo intuire quando c’è puzza di bruciato. Non abbiamo bisogno di veri o falsi economisti per capire che la prospettiva teorica nella quale si colloca la legge di bilancio non ha come obiettivo il cambiamento ma la conservazione, la continuità neoliberista, la “modernizzazione” dell’attuale modello di sviluppo e di produzione, il mantenimento degli attuali rapporti di potere e di forza tra le classi, senza una vera redistribuzione della ricchezza se non attraverso l’elemosina, o l’utilizzo di un terzo settore sempre più alternativo al servizio pubblico.
Se non sapremo contrastare questa continuità, teorica e pratica, con il passato, anche sul fronte culturale e valoriale, se non ritorneremo nei luoghi di lavoro con più assiduità e continuità, se non costruiremo e metteremo in campo, con la mobilitazione e lo sciopero generale, la forza, la rappresentanza e il valore del mondo del lavoro, rischiamo di uscire dalla pandemia e dalla crisi economica e sociale non con un radicale cambiamento, richiesto prima di tutti dalla Cgil, ma peggio di come ci siamo entrati, nonostante le ingenti risorse del Pnrr.
Siamo per natura realisti, ma sempre con l’ottimismo della volontà; siamo e rimaniamo sindacalisti non rassegnati e in lotta. La Cgil deve utilizzare al meglio il consenso e la fiducia di chi rappresenta e dell’insieme del mondo del lavoro, sapendo che le battaglie perse per sempre sono quelle non combattute. Per questo, per il nostro futuro e quello delle nuove generazioni, le battaglie vanno sempre combattute.