La pausa caffè censurata dalla Corte di Cassazione - di Gabriella Del Rosso

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E' stato dato risalto, nelle notizie di cronaca, ad una ordinanza della Corte di Cassazione (n. 32473 dell’8 novembre 2021) che ha negato l’indennizzabilità da parte dell’Inail dell’infortunio occorso ad una lavoratrice durante la “pausa caffè”, ritenendo trattarsi di un rischio generico, di carattere elettivo, non collegabile alla prestazione lavorativa. La decisione della Corte segue alle sentenze di merito (Tribunale e Corte di Appello di Firenze), che avevano dato ragione alla lavoratrice.

Queste le circostanze di fatto: durante l’orario di lavoro continuato per sei ore (dalle 8,30 alle 14,30) era prevista e regolamentata dal datore di lavoro una pausa di mezz’ora durante la quale, timbrato il cartellino in uscita, era consentito ai dipendenti uscire dal luogo di lavoro per potersi recare a un vicino bar per un ristoro, dato che all’interno dell’edificio aziendale non vi era una possibilità alternativa. Durante questa “pausa caffè” la lavoratrice era caduta per strada riportando una grave lesione e, a seguito delle sentenze di merito favorevoli, le era stata riconosciuta una rendita Inail.

Secondo i giudici di merito, la fattispecie poteva essere assimilata a quella dell’infortunio occorso durante la pausa pranzo qualora in azienda non vi fosse la mensa. Sul tema si era formato un indirizzo della giurisprudenza della stessa Cassazione già prima che fosse codificato l’infortunio in itinere ad opera del Decreto legislativo n. 38/2000 (riforma del Testo Unico Infortuni e malattie professionali) che era stato richiamato dalla Corte di Appello. In particolare, la Corte fiorentina aveva ritenuto che per l’indennizzabilità dell’evento fosse “sufficiente il nesso, che in ragione del riconoscimento datoriale non può ritenersi estrinseco alla prestazione lavorativa, tra la condotta della lavoratrice e l’attività che la stessa si accingeva a riprendere con il suo rientro in ufficio, ciò che consente di ricondurre l’infortunio de quo tra gli eventi protetti”. Non vi era stato pertanto un rischio elettivo, scollegato funzionalmente all’occasione di lavoro.

Di orientamento opposto la decisione della Cassazione in commento che si richiama ad orientamenti molto risalenti, dei primi anni ’90, secondo i quali, pur non essendo strettamente necessaria la circostanza che l’infortunio si sia verificato nel tempo e nel luogo della prestazione lavorativa, tuttavia l’evento non può essere totalmente estraneo all’attività lavorativa, scaturito cioè da una scelta arbitraria del lavoratore che, mosso da impulsi personali, crei e affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente l’attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento.

Ad avviso della Cassazione, anche se la pausa era stata espressamente autorizzata e regolamentata dal datore di lavoro, questa rimaneva pur sempre estranea all’attività lavorativa in quanto volta al “soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente”, tale da interrompere “la necessaria connessione causale tra attività lavorativa e incidente”.

Peraltro l’ordinanza della Cassazione non tiene conto, inopinatamente, dell’art.12 del Decreto legislativo n. 38/2000 che prevede l’indennizzabilità dell’infortunio occorso nel tragitto esterno all’azienda, “qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”. Non vi può essere dubbio sul fatto che anche la consumazione di bevande o cibi durante la cosiddetta “pausa caffè” debba rientrare nella stessa nozione di necessità fisiologica implicita nella norma (Cassazione, sez. lavoro n.15047/2007).

Inoltre si deve notare come l’interpretazione oltremodo restrittiva della fattispecie scaturisca verosimilmente da una concezione “robotica” del lavoratore che, una volta entrato in azienda, non deve interrompere in alcun modo la prestazione lavorativa se non per necessità fisiologiche improcrastinabili, come se le sue necessità personali, peraltro compatibili con il sentire comune, si dovessero arrestare all’ingresso dell’azienda, pure se riconosciute dal datore di lavoro e finalizzate anche, indirettamente, a una migliore resa della prestazione dopo un breve periodo di ristoro.

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