“Abbiamo già bruciato i nostri libri…’’, mi racconta Hafiza al telefono. ‘‘Le milizie taliban passano di casa in casa dicendo che vengono a cercare le armi. Noi sappiamo che in realtà cercano di capire chi siamo, se abbiamo lavorato col governo o con gli americani, se abbiamo studiato o se abbiamo fatto politica. Un quartiere dopo l’altro, arrivano. Tra qualche giorno saranno qui’’.
C’è un solo tipo di musica autorizzato dal regime talibano, ancora diffusa dalle autoradio delle macchine ferme all’incrocio. Pattuglie di taliban camminano per la strada, o osservano la gente seduti a bordo dei pick up. C’è chi cerca di scappare, nei Paesi vicini, in Europa o negli Usa, le immagini dell’aeroporto di Kabul lasciano l’amaro in bocca. L’Afghanistan sembra in attesa. In attesa di sapere se sarà formato un governo di coalizione fra taliban e alcuni membri del governo precedente. In attesa di sapere quali saranno le regole di questo nuovo periodo storico. In attesa di ritirare soldi dalle banche, perché sono tutte chiuse. La preoccupazione più grande è quella di finire le scorte, di non avere più nulla da mangiare. Cosa ne sarà degli ospedali, delle scuole, delle istituzioni? I fondi internazionali sono stati bloccati. Forse saranno usati come leva da parte della comunità internazionale per imporre condizioni volte al rispetto dei diritti umani.
Al di là dell’incertezza e della paura, c’è la resistenza. La resistenza in Afghanistan assume tante forme, alcune più visibili di altre, nello spazio pubblico o privato. All’indomani della presa di Kabul, una parte della popolazione è scesa in piazza con le bandiere tricolori, manifestando contro i nuovi detentori del potere. La maggior parte delle manifestazioni sono state represse nel sangue, quelle invece mediatizzate sembravano voler rassicurare il popolo che i taliban sono aperti alle forme di protesta.
Come fidarsi delle perenni incoerenze? Alcuni militanti afgani non si espongono in manifestazioni per paura che, qualora non siano represse, questa sia una strategia dei taliban per riconoscerli e ritrovarli più avanti, per farli sparire. Oltre alle proteste in strada ci sono le miriadi di bandiere, di messaggi di solidarietà, di messaggi di rabbia e di offerte di aiuto pubblicate on line dagli afgani e le afgane all’estero. Poi ci sono le sigarette fumate di nascosto, le danze segrete, lo smalto, le canzoni composte per essere cantate nel futuro. Le compagne della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) organizzano anche loro la resistenza a un regime oscurantista, antidemocratico e fortemente patriarcale. Rawa è un’associazione di donne che esiste dagli anni ‘70 e ha già operato in totale clandestinità tra il 1996 e il 2001. Hanno continuato in seguito a rimanere discrete ma efficaci, per proteggere la sicurezza delle attiviste. In tutti questi anni, le donne rivoluzionarie hanno lavorato per creare una forte consapevolezza politica tra le donne afgane, e hanno cominciato proprio dalle basi. Corsi di alfabetizzazione per le donne, costruzione di scuole, cliniche, progetti di aiuto e rifugio per le donne vedove di guerre. Hanno lavorato nei campi profughi, organizzato eventi e manifestazioni di protesta contro il fondamentalismo religioso, l’invasione statunitense, le violazioni costanti dei diritti delle donne nella quotidianità afgana e molte altre cause. La loro resistenza continua oggi. Loro non lasciano l’Afghanistan. Restano per continuare a combattere per cambiare il destino del loro paese, e quello delle donne afgane.
Mentre loro si mobilitano, per esempio aiutando le migliaia di sfollati arrivati a Kabul, e pianificando le azioni future, a noi attiviste del Comitato Italiano di Sostegno alle Donne Afgane (Cisda), nato nel 1999 per sostenere proprio le donne di Rawa, chiedono di portare la loro voce nel nostro Paese e in tutta Europa. Le accompagnamo nella lotta per porre fine all’imperialismo, al fondamentalismo religioso e alla strumentalizzazione dei diritti delle donne per interessi di tipo economico, commerciale e politico sul piano internazionale.
Per questo chiediamo alle nostre istituzioni di rifiutare il riconoscimento di un governo talebano, illegittimo e sanguinario, e di non sostere alcun gruppo fondamentalista né con finanziamenti, o armi, o formazione tecnica e militare, ma di appoggiare le forze democratiche esistenti in Afghanistan come il Partito della solidarietà ‘Hambastagi’ e Rawa. Le nostre compagne afgane ci insegnano che ci sarà giustizia in Afghanistan solo quando coloro che hanno commesso i terribili crimini di guerra contro la popolazione, mujahideen, taliban, o esponenti degli eserciti stranieri, saranno giudicati colpevoli di fronte a un tribunale internazionale. Per ora, è dovere dei Paesi che hanno occupato l’Afghanistan per 20 anni aiutare e accogliere la popolazione in fuga, aprire corridoi umanitari e garantire protezione.