Welfare universalistico, favorevoli o contrari - di Mara D’Ercole

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Guido Cavalca, a cura di, “Reddito di cittadinanza: verso un Welfare più universalistico?”, Franco Angeli, pagine 262, open access.

èuscito di recente un libro interessante e utile a svecchiare la cassetta degli attrezzi concettuali di chi lavora per i lavoratori. Si tratta del volume collettivo curato da Guido Cavalca “Reddito di cittadinanza: verso un Welfare più universalistico?”, pubblicato con licenza Creative Commons nella collana Sociologia delle edizioni Franco Angeli, liberamente scaricabile.

Lo spunto da cui partono gli autori è quello di fare un primo bilancio a due anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza ad opera del governo gialloverde, ma oltre a ripercorrere l’applicazione della misura in questi due anni segnati da eventi imprevedibili, il volume offre diverse opportunità di riflessione, contestualizzazione e di più ampi ragionamenti.

Il dibattito sull’introduzione di una misura di reddito minimo di inserimento, si ricorda nel libro, è iniziato in Italia nei primi anni ’90 in seguito alle Raccomandazioni della Commissione Ue (1992) che invitava i paesi membri ad adottare misure di contrasto alla povertà. Sono seguiti tentativi e sperimentazioni condotti da alcune amministrazioni locali fino all’istituzione della prima misura universalistica di sostegno al reddito, il Reddito di inclusione, introdotto nel 2017 dal governo Gentiloni e sostituito poi dal più sostanzioso Reddito di cittadinanza.

Oltre all’analisi degli effetti positivi, dei limiti e delle possibilità di miglioramento dei diversi strumenti, ciò che emerge con chiarezza dai diversi contributi presenti nel libro è come il dibattito sul sostegno incondizionato al reddito sia sempre stato fortemente ideologico. La propensione o l’avversione tutta ideologica agli strumenti incondizionati di lotta alla povertà non è né una caratteristica solo italiana né una novità. Come si legge nel primo capitolo, l’idea di un reddito universale germoglia dalla dottrina medievale cristiana sulla destinazione universale delle risorse, un’idea inabissatasi, riemersa e passata poi al setaccio prima dagli economisti classici e poi dai marginalisti, i quali formalizzano in un modello matematico-economico la problematicità del sostegno incondizionato al reddito, misura che riducendo pavlovianamente lo stimolo al lavoro degli individui finirebbe con il danneggiare l’intero sistema economico.

Dalla teoria marginalista nasce la radicata diffidenza di chi pensa che il reddito di cittadinanza spinga a starsene seduti su un divano piuttosto che a cercarsi un lavoro, ma anche la più moderata e articolata opinione di chi pensa che le misure incondizionate di lotta alla povertà siano non solo economicamente difficili da sostenere, ma che soprattutto sottraggano risorse ed energie alla creazione di un modello di sviluppo teso alla piena e buona occupazione. E così il Reddito di cittadinanza è stato concepito come uno strumento “misto”, un po’ lotta alla povertà, un po’ politica attiva del lavoro, in linea con le soluzioni di compromesso che anche in passato sono state trovate tra le due posizioni ideologicamente contrapposte.

Dai diversi contributi emergono una serie di considerazioni sulla frammentazione del sistema del welfare italiano, e su come tale frammentazione generi differenze aggiuntive in territori disomogenei; sulla necessità di capire in maniera più mirata chi siano gli “insider” e gli “outsider” sociali (i giovani, gli stranieri, le donne, la generazione dei cinquantenni, le famiglie?); sulla commistione e l’eterogeneità dei fini fra strumenti incondizionati di lotta alla povertà e politiche attive del lavoro; sul ruolo del pubblico, del privato e dell’associazionismo (sindacati inclusi) nella scelta e nell’erogazione sia delle misure di sostegno al reddito che degli strumenti di politica attiva del lavoro.

Si tratta, insomma, di una buona lettura per ringiovanire la postura del sindacato sulla contrattazione sociale. Ascoltare senza timori le ragioni dei network che a diversi livelli sostengono il “basic income”, e incrociarle con le competenze del sindacato sulla contrattazione sociale, non ci può fare male. Potrebbe invece vivacizzare una rappresentanza più animatamente confederale, e farci fare un passo in avanti verso il sindacato di strada che vorremmo.

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