La guerra più lunga degli Usa si conclude con una ritirata. All’inizio di maggio le bandiere della Nato inizieranno ad essere ripiegate e portate via con truppe e armamenti. La guerra in Afghanistan, iniziata nel 2001 come vendetta contro un popolo a seguito dell’attentato alle Twin Towers, lascia sul terreno un bilancio tragico e disastroso: oltre 46mila civili uccisi, 3.596 militari occidentali caduti, di cui 2.448 statunitensi e 52 italiani. Il costo di questa ventennale occupazione, oltre mille miliardi di dollari, era diventato sempre più insostenibile, e la stessa opinione pubblica Usa sempre più ostile. “Santuario del terrorismo internazionale”, era stato definito l’Afghanistan 20 anni fa da George Bush Jr., iniziando la stagione della “guerra permanente”, di lì a poco propagata all’Iraq, infiammando e rendendo insicuro tutto il Medio Oriente.
Eppure la storia insegnava che non esiste soluzione militare in Afghanistan. I sovietici iniziarono il crollo del loro impero proprio su queste montagne, con una guerra di logoramento durata dieci anni. L’impero britannico non era stato da meno, riuscendo a controllare, come capiterà poi a Urss e Nato, solo Kabul e alcune città, ma con la maggioranza del territorio in mano ai ribelli.
Anche oggi Joe Biden ritira i suoi uomini da un Paese in cui il 70% del territorio non è mai stato sotto controllo alleato. Certo, Al Qaeda è sconfitta e il sodalizio con i talebani rotto da tempo, molto prima dell’uccisione di Bin Laden in Pakistan, dieci anni fa. Barack Obama avrebbe dovuto cogliere l’occasione dell’eliminazione del terrorista saudita più ricercato al mondo per ritirare il contingente internazionale. Le pressioni della potente lobby delle armi, e l’illusione di poter garantire dall’esterno un governo afghano amico dell’occidente, lo indussero a mantenere la missione caricandola sempre più, in termini economici e di caduti, sulle spalle degli alleati europei.
L’Afghanistan è il maggiore produttore mondiale di oppio, nonostante che gli Usa abbiano speso circa 8,62 miliardi di dollari in attività anti-narcotici. Con la droga i talebani e gli altri signori della guerra pagano le truppe, comprano il consenso della popolazione, e rendono infinita la disponibilità finanziaria per comprare armi. Il picco del periodo di coltivazione del papavero è stato il 2017: 328mila ettari coltivati. La produzione di droga è una soluzione obbligata per tantissimi contadini, l’unico volano per sopravvivere. Il risultato è che si è esteso il consumo degli oppiacei anche tra gli stessi afghani, creando un vero e proprio esercito di tossicodipendenti. Secondo il ministero della salute di Kabul, in tutto il Paese a drogarsi sarebbero circa tre milioni di persone, donne e bambini compresi. Un problema sociale immenso che si somma a quello di decine di migliaia di vedove, di invalidi di guerra o civili che hanno perso gambe o arti superiori saltando sulle mine di cui è disseminato il Paese.
Donald Trump aveva firmato un primo “accordo di pace” con i Talebani che prevedeva il ritiro dei soldati entro il primo maggio. Biden si è preso qualche mese, spostando il ritiro definitivo alla data simbolica dell’11 settembre. La conseguenza è che la cosiddetta conferenza di pace è saltata. Unama, la missione dell’Onu a Kabul, promotrice insieme ai governi di Turchia e Qatar del dialogo interno, ha dovuto alzare le braccia al cielo in segno di resa.
La sconfitta dell’offensiva diplomatica di Washington è una nuova vittoria per i talebani, che sentono ormai imminente il ritiro delle truppe Nato e non hanno più alcun interesse ad alimentare la pantomima del dialogo.
Il presidente afghano, Ashraf Ghani, e Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, sanno benissimo che il conto alla rovescia è cominciato, e sarà complicato per le istituzioni afghane reggere a lungo la guerriglia dei talebani che vogliono l’intero Paese. In più, se pure Al Qaeda è stata ferita a morte, il fanatismo religioso ha fatto nuovi adepti con i seguaci del califfato nero dell’Isis, concorrenti degli stessi talebani. Ovviamente il timore di un ritorno dei “catechisti di Dio” al timone del Paese preoccupa l’ancora fragile società civile, per il rischio concreto di ripiombare sotto il regime arbitrario ed oscurantista della Sharia.
Non fanno una bella figura gli alleati europei, Italia compresa, che avevano 20 anni fa accettato di assecondare l’alleato Usa in cerca di vendetta, e ora ne subiscono, non senza fastidio, le decisioni unilaterali. L’Italia, in Afghanistan dal 2004, è arrivata ad avere sul suolo afghano nel 2011 ben 4.250 militari, il secondo contingente della Nato.
Nessuna riflessione si è aperta nel governo sul fallimento di questa missione, né la politica sembra interessata a far cambiare strada a questo tipo di impegni internazionali. Il ministro della difesa Lorenzo Guerini ha annunciato in Parlamento che gli 800 militari italiani che lasceranno l’Afghanistan non torneranno a casa ma saranno impiegati all’estero, a difesa del fianco sud dell’alleanza. Sarà il Niger il nostro nuovo Afghanistan?