Nel cuore della pandemia, la regione più ricca d’Europa ha sofferto e continua a soffrire. Le ultime notizie dalla Lombardia raccontano che i suoi dieci milioni e mezzo di abitanti sono tornati fra ‘zona arancione’ e ‘zona rossa’. I colori del pericolo, di una diffusione del virus che non conosce soste.
In questo quadro a tinte fosche, l’ospedale San Raffaele di Milano resta un faro nella nebbia, forte di una storia che in cinquant’anni di vita lo ha portato ad essere uno dei poli di eccellenza della pur privatizzata sanità lombarda. Nei suoi trecentomila metri quadrati, nei pressi di Casciana Gobba e dell’Olgettina, sul confine fra Milano e Milano 2 di Segrate, è stato ricoverato almeno una volta nella vita il fior fiore della borghesia non solo meneghina. Uno su tutti Silvio Berlusconi, che per i suoi recenti problemi di salute del San Raffaele può essere considerato un assiduo frequentatore. Sabrina (nome di fantasia) - che preferisce restare anonima per non attirare l’attenzione su di sé, ma su “un’emergenza sanitaria che tutto stravolge” - l’ospedale l’ha visto nascere, dato che da più di trent’anni lavora nella struttura, nel frattempo cresciuta fino ad avere oggi 1350 posti letto e 3400 fra medici, infermieri, operatori socio sanitari.
Poi ci sono loro, le lavoratrici e i lavoratori in appalto, che sono essenziali al pari degli addetti diretti per il funzionamento della gigantesca macchina ospedaliera. “Quando sono entrata a lavorare al San Raffaele avevo appena 19 anni - ricorda - ero una ragazzina. C’erano solo pochi padiglioni, l’ho visto prendere forma, pezzo dopo pezzo. Conosco tutti, è diventata la mia seconda casa”. Parole sincere, dette da una lavoratrice in appalto di 55 anni. “A un certo punto l’ospedale mi aveva prospettato l’assunzione diretta. Ma mi offrivano un contratto a tempo determinato, io avevo un mutuo da pagare e non ho potuto accettare di rimanere, sostanzialmente, senza certezze per il futuro”.
Per Sabrina e i suoi circa trecento tra colleghe e colleghi impegnati al San Raffaele, il datore di lavoro è cambiato più volte. Fra gli altri Pellegrini Spa, un gruppo molto importante, milanese fino al midollo, come il suo fondatore Ernesto Pellegrini, antico patron dell’Internazionale fra il 1984 e il 1995, undici anni impreziositi da uno scudetto e due coppe Uefa, ancora oggi nel cuore dei tifosi della Beneamata. I colossi dei servizi occupano migliaia di addetti, impegnati dalla ristorazione collettiva alle pulizie, fino alle manutenzioni.
Sabrina ci risponde da casa, il virus ha colpito anche lei. Combattiva delegata della Rappresentanza sindacale aziendale, tessera Filcams Cgil in tasca, è anche responsabile della sicurezza, e non ha peli sulla lingua a denunciare che tanti contagi potevano essere evitati. “All’inizio della pandemia la situazione era davvero pesante, non avevamo a disposizione i necessari dispositivi di protezione individuale - tira le somme - se l’azienda chiama ma non ci sono mascherine a sufficienza, io sono del parere che non si dovrebbe andare a lavorare. Ne va della salute, la nostra e quella dei nostri cari, perché questo virus si trasmette con estrema facilità”.
Dopo la terribile emergenza della scorsa primavera, quella di due mesi di completo lockdown nazionale e di un virus che mieteva migliaia di vittime, il paese intero si è organizzato meglio per far fronte all’attuale seconda ondata. “Oggi ci sono mascherine, guanti, occhialini - sottolinea Sabrina - ma sapessi quante colleghe sono state contagiate. Poteva capitare a tutti”. Negli ospedali, le statistiche in merito sono piuttosto precise, c’è stato per forza di cose un gran numero di contagi. A tal punto che, già prima dell’estate, sono stati creati reparti Covid separati dagli altri padiglioni in ogni policlinico della penisola. “C’è chi ha preso il virus in forma blanda, è stato asintomatico - riepiloga Sabrina - altre, come me, sono state ricoverate di urgenza perché rischiavano la vita. Sono asmatica, sono stata malissimo, ho visto la morte in faccia”.
Gli addetti degli appalti lavorano su tre turni: mattino, pomeriggio e sera. Con l’emergenza Covid si è aggiunto il turno notturno, per un impegno complessivo che è diventato h24. “Quello della sanificazione è un lavoro duro già abitualmente, nella pandemia è diventato se possibile ancora più impegnativo”. Sabrina si racconta come una ‘rompiscatole’, sindacalmente parlando. Non le ha mai mandate a dire dietro, forse la diplomazia non è il suo forte. Ma ha tutte le ragioni quando osserva, ancora una volta, che c’è modo e modo di fare le cose: “Quando sei impegnata nei reparti prelievi, dove fanno anche i tamponi a pagamento, vedi tutta quell’umanità ammassata e senza il rispetto delle pur minime norme di sicurezza come il distanziamento di un metro. Allora capisci che dobbiamo fare ancora tanta strada, prima di arrivare ad una vera cultura della sicurezza”.