La rarefazione e il rallentamento indotti dalla pandemia hanno aperto uno squarcio sull’eterno presente. La rottura di abitudini e prassi consolidate ci ha costretto a porre di nuovo alcune domande di fondo. Quali attività produttive sono indispensabili? Quanta rilevanza hanno relazioni umane e sociali gratificanti per dare un senso al nostro divenire? Si può vivere senza essere irretiti dal consumo del superfluo? Perché attività economiche non essenziali non possono essere chiuse? Perché si è esposto tutto il Paese a lutti e sofferenze, non bloccando le produzioni della bergamasca orientate all’export?
Abbiamo assistito ad un mantra che recitava, al di fuori di ogni ragionamento epidemiologico e di salute pubblica, che lavoratori e interi territori non potevano esser chiusi, perché altrimenti altri lavoratori ed altri territori ci avrebbero sostituito nella lotta per la conquista o il mantenimento di quote di mercato. Ovvero: abbiamo avuto imprenditori privati che hanno provato a convincere lavoratori e territori a immolarsi per garantire i loro diretti profitti d’impresa. Ma è naturale tutto ciò? E’ giusto e desiderabile? Hanno un senso società basate su tali presupposti? Siamo di fronte ad un dato di natura, o alla più evidente manifestazione non solo dell’inutilità ma della nocività di un sistema che assolutizza i destini delle imprese private quali garanti dell’interesse generale?
Dobbiamo ringraziare Confindustria e il suo nuovo “capo”, ex presidente di Assolombarda. Le sue arroganti parole ci costringono a domandarci a cosa servano e da dove pretendano di trarre la loro legittimazione gli imprenditori privati del nostro Paese. Gli imprenditori privati, i padroni, i capitalisti.
Non dalla storia: poco edificanti sono state le reali vicende che li hanno contraddistinti. Si ergono in maniera idealtipica come unici produttori di ricchezza e lavoro ai quali consegnare le redini dell’intera società. Richiamare a fondamento delle esternazioni di Bonomi Max Weber e Schumpeter è eccessivamente nobilitante, quando dietro le pressioni di Confindustria c’è una ben più prosaica esigenza di accaparrarsi le risorse europee.
Non si dà ripresa possibile di un sindacato generale, né tanto meno di una sinistra politica, se non torniamo a demistificare tali assunti a livello di massa. Soccorre il ritorno a Marx, alle bambinate con le quali il capitalismo edificava la propria genealogia, alla critica delle “robinsonate”. Come il capitalismo è una formazione economico-sociale determinata, così i cosiddetti imprenditori e le loro caratteristiche e fonti di legittimazione sono storicamente determinati.
Certo, occorre strappare tutti i veli del neoliberismo, delle retoriche manageriali, della fine della società e dell’uomo, per sua antropologica natura essere calcolante secondo i principi dell’economia classica. Sono castronerie, ovviamente, ma hanno imbevuto il senso comune dei lavoratori e delle loro organizzazioni, sindacali e politiche.
Chi crea la ricchezza, l’impresa o il lavoro vivo? Ne abbiamo avuta una dimostrazione durante lo scontro su servizi essenziali, autocertificazioni prefettizie e codici Ateco. Senza il lavoro operaio di fabbrica il sistema crolla, senza il lavoro di cura le famiglie non tengono, senza i lavoratori manuali stranieri le tavole restano vuote. E’ il lavoro vivo il cuore delle società capitalistiche, un lavoro vivo da indagare e ricomporre “distendendo il marxismo”, come sosteneva Fanon. Significa riconoscerne la centralità interpretativa del reale e politica di trasformazione.
Se bisogna riandare indietro per andare avanti, saltando trent’anni di subalternità culturale ed ideologica, rileggere oggi un classico come il “Dizionario di sociologia” di Luciano Gallino offre punti di vista illuminanti. Quello che Gallino ha lasciato in voci come quella che qui ci interessa, ‘Imprenditori’, non è il pensiero dell’illustre studioso prima del dispiegarsi della “nuova ragione del mondo”, ma il punto per ripartire dopo l’ubriacatura neoliberista. E’ per Schumpeter, soprattutto, passando per Weber e Sombart, che lo sviluppo economico viene considerato una variabile dipendente della presenza di imprenditori. Senza imprenditori privati non vi sarebbe sviluppo economico. Gallino rileva come questa sia ormai opinione largamente diffusa tranne che per pensatori e forze di ispirazione marxista, e che la discussione non è affatto storica e/o teorica.
Il punto politico è la polarità Stato e Impresa privata: e mai come in questa fase, rispetto a questo governo ed a un dopo Covid19 che non sia peggio di prima, tali sollecitazioni risultano di una stringente attualità. Da una parte lo ‘Stato imprenditore’, il mercato interno e il bene comune, dall’altra Bonomi, Confindustria e i padroni privati. Non è difficile scegliere da che parte stare. Dimenticavo: ci vorrebbe un Partito, mentre possiamo benissimo fare a meno dei padroni.