La novella dello stento che dura tanto tempo. La vecchia filastrocca popolare ben si addice alla situazione degli addetti della Whirlpool di Napoli. Donne e uomini combattivi, convinti fino a pochi mesi fa di avere il posto di lavoro garantito, grazie a un accordo sottoscritto con la multinazionale. Poi però, come i fulmini che annunciano la fine dell’estate, è arrivata la doccia gelata: i vertici della casa americana di elettrodomestici decidono di abbandonare il sito produttivo campano, per cederlo a una società svizzera che si occupa di refrigerazione - la Passive refrigeration solutions (Prs) - semisconosciuta, se non ai manager Whirlpool. Con tanti saluti ai 420 addetti, molti dei quali con un’anzianità di servizio pluridecennale. In un attimo vengono cancellati trent’anni di buone relazioni sindacali e gli accordi sottoscritti, per gli operai il futuro diventa un’incognita.
In solidarietà con i compagni di lavoro di Napoli, tutti gli stabilimenti italiani di Whirlpool Emea (la divisione del colosso Usa che controlla le produzioni europee, africane e del medio oriente) si sono mobilitati, da Napoli a Milano passando per i siti di Comunanza (Ascoli Piceno), Carinaro (Caserta), Siena e Cassinetta (Varese). Manifestazioni, scioperi, presidi, fino ad ottenere lo stop della procedura di cessione del sito produttivo. La multinazionale è stata costretta a sedersi nuovamente di fronte ai rappresentanti del ministero dello Sviluppo economico e delle istituzioni locali, anche esse preoccupatissime per le ricadute sociali dell’eventuale chiusura.
Non succede spesso che gli americani si fermino a riflettere. Ma come Davide ha sfidato Golia, così le operaie e gli operai napoletani non intendono abbandonare la produzione di quelle lavatrici di alta gamma che assicurano loro un progetto di vita. Eppure, a un mese dall’annuncio del congelamento della vendita della fabbrica, la posizione della multinazionale sostanzialmente non è cambiata: il sito di Napoli non è sostenibile e vanno trovate delle soluzioni alternative entro il mese di marzo.
Raffaele Romano, storico delegato della rappresentanza sindacale unitaria, orgoglioso della sua tessera Fiom Cgil in tasca, fa subito notare che lo stabilimento di via Argine è un modello di produttività ed efficienza. “Questa fabbrica è stata capace di produrre 3.700 pezzi al giorno. Oggi, per difficoltà di mercato, non certo nostre, siamo costretti a farne solo 2mila, che comunque sono 273mila lavatrici l’anno”. Romano non accetta le giustificazioni della multinazionale: “Non ci è ancora stato spiegato perché la nostra fabbrica debba chiudere. Non è uno stabilimento obsoleto, decotto, ma perfettamente attivo e in linea con le più moderne tecniche di produzione”.
Whirlpool ha accettato solo di rinviare la chiusura dei cancelli, da novembre a marzo 2020, quindi la partita è tutt’altro che chiusa. “A marzo che succederà? - si chiede Romano - Siamo in contratto di solidarietà da otto lunghi anni, già oggi tiriamo la cinghia. Abbiamo dovuto fare buchi aggiuntivi. I vari tavoli tecnici con il ministro Patuanelli non sono riusciti a sbloccare la situazione”. Dopo le feste natalizie ci sarà un nuovo round di incontri, la speranza delle lavoratrici e dei lavoratori è che Whirlpool torni sui suoi passi, appena l’anno scorso era stato firmato un accordo che non prevedeva la chiusura della fabbrica. “Per giunta non è un mistero che nell’area napoletana ci siano seri problemi occupazionali, specialmente sul fronte manifatturiero. Sono pochi i poli industriali ancora in funzione, nel comprensorio di Whirlpool resistono Hitachi Rail e poco altro. Qui da noi l’età media degli addetti è superiore ai quarant’anni, chiudere sarebbe l’ennesimo regalo alla criminalità organizzata. Nella periferia la camorra la fa da padrone, non mi sembra il caso di consegnarle altre braccia”.
Romano lavora in Whirlpool da trentuno anni, per lui questa fabbrica non ha segreti. “Siamo passati dalle catene di montaggio vecchia maniera ai processi più avanzati di produzione. C’è stato un progressivo sviluppo tecnologico dello stabilimento. Siamo in grado di soddisfare clienti esigenti come svizzeri e tedeschi. Più che semplici operai siamo dei tecnici”. In via Argine si producono lavatrici da più di sessant’anni, da quando la fabbrica portava il glorioso marchio Ignis, poi Ire, dopo ancora Philips - quando fu assunto Romano - e infine gli americani. Un pezzo di storia industriale italiana in mano alle multinazionali. “Vorrebbero riconvertirci in una non meglio precisata produzione di congelatori, senza alcuna garanzia. Un salto nel buio. Non per caso ci hanno proposto incentivi all’esodo”. Tutta Italia ha parlato della loro battaglia. “Ringraziamo chiunque si sia interessato alla nostra vertenza. Ma adesso vogliamo risultati, la fabbrica deve restare aperta e continuare a fare lavatrici”.