L’esperienza quotidiana delle vertenze sindacali insegna che, molto spesso, dietro ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo si nasconde una ritorsione dovuta alle più varie ragioni. Il più delle volte è molto difficile ottenere l’accertamento di tale motivazione, perché è onere del lavoratore dare la prova che la ritorsione è stato l’unico motivo che ha determinato il licenziamento, affinché in giudizio ne venga dichiarata la nullità e quindi disposta la tutela della reintegrazione in base all’articolo 18 legge 300/1970 anche nelle aziende che occupano meno di 16 dipendenti.
In proposito merita segnalare una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (numero 23.583 del 23 settembre 2019) che ha confermato una sentenza della Corte di Appello di Firenze, con la quale era stata dichiarata la ritorsione e quindi la nullità di un licenziamento nell’ambito di una piccolissima (ma assai florida) azienda del settore metalmeccanico. Il licenziamento era stato giustificato con la soppressione del reparto cui era stato addetto il lavoratore, finché questi si era assentato dal lavoro per diversi mesi a causa di malattia. Al rientro al lavoro gli era stata subito consegnata la lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale del lavoro, adito per far dichiarare la nullità del licenziamento in quanto determinato non dalla soppressione di un reparto ma da ritorsione per l’assenza ritenuta eccessivamente lunga da parte del datore di lavoro, aveva ritenuto che il licenziamento non fosse legittimo per mancata attuazione del cosiddetto obbligo di repechage, ma non aveva ritenuto che si trattasse di una ritorsione. Pertanto al lavoratore spettava solo un’indennità risarcitoria minima, pur avendo lavorato nella stessa azienda per moltissimi anni.
La peculiarità della vicenda risiedeva nella circostanza che effettivamente non era emerso alcun reale motivo oggettivo per procedere al licenziamento, in quanto non era vero che il lavoratore fosse stato addetto ad una lavorazione soppressa. Anzi, era risultato che in realtà tale lavorazione era sempre stata del tutto marginale nell’ambito dell’azienda e che il profitto ricavato, esponenzialmente scarso rispetto al volume di affari dell’azienda stessa, non avrebbe nemmeno giustificato il costo di un lavoratore specializzato, quale quello licenziato.
La sentenza del Tribunale era stata dunque riformata in appello, ed era stato dichiarato che la dimostrata insussistenza del motivo addotto per il licenziamento era tale da giustificare la presunzione che il vero e unico motivo del licenziamento era stata la malattia del lavoratore.
Investita della questione su ricorso del datore di lavoro perdente in appello, la Corte di Cassazione ha deciso in favore del lavoratore con una motivazione che risulta assai utile per superare le difficoltà della prova quando il lavoratore ritiene di essere stato licenziato per ritorsione, e non per un motivo oggettivo. Infatti la Cassazione ha espresso il principio che l’esclusività del motivo illecito che determina la nullità del licenziamento può essere accertata se il motivo addotto a giustificazione del licenziamento, pur formalmente lecito, non risulti sussistente nel riscontro giudiziale. In altre parole, se il giudice riscontra che il datore di lavoro non ha assolto l’onere di dimostrare il giustificato motivo oggettivo, deve procedere alla verifica delle giustificazioni del lavoratore circa il vero motivo del licenziamento, avvalendosi anche di regole di esperienza poste a base del ragionamento presuntivo.
In sostanza il licenziamento, nel caso esaminato, non trovava altra spiegazione, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, se non nel collegamento causale con l’assenza per malattia, essendo risultata del tutto infondata la motivazione formalmente addotta dal datore di lavoro.