Alla fine il Parlamento inglese è stato sospeso (prorogued) fino al prossimo 14 ottobre, data del Queen’s Speech in cui la regina Elisabetta II dovrebbe elencare i provvedimenti del governo Johnson. Il premier conservatore ha così attuato la controversa disposizione che ha fatto gridare al colpo di stato le opposizioni. Al tempo stesso l’aula ha votato sul secondo tentativo governativo di intavolare una mozione che richieda elezioni anticipate, e come ampiamente previsto ha bocciato la richiesta, negando a Boris Johnson quei due terzi dei consensi dell’aula necessari secondo il Fixed Term Parliament Act.
Le fibrillazioni del governo sono l’effetto diretto di una Brexit che continua a togliere il sonno al di là della Manica. Jeremy Corbyn, il leader laburista che dopo molti tentennamenti è ora, di fatto, il leader del fronte filo-remain, ha definito la prorogation una “mossa disgraziata”. Che ora per giunta sembra scarsamente utile al premier. Johnson sembra essersi giocato l’ultima, inutile, carta. Anche volendo, non ha modo di fare quel che dice di voler fare, cioè rinegoziare l’accordo di uscita con l’Ue, soprattutto per la questione del backstop nordirlandese. Sul punto, nessuna soluzione al problema del confine irlandese – con l’Eire che resta saldamente europeista - è emersa durante l’incontro tra Johnson e il premier dublinese Leo Varadkar. Dopo una discussione “costruttiva”, i due leader hanno ammesso che le posizioni restano lontane, perché il ritorno del confine fra Eire e Ulster vanificherebbe l’ “Accordo del venerdì santo” che pose fine al lungo e sanguinoso conflitto nordirlandese.
L’appassionante sfacelo della premiership Johnson continua dunque in moto circolare, anche se forse non ancora per molto. Al momento il primo ministro, la cui solidità politica fa sembrare le recenti, multiple sconfitte della sua predecessora Theresa May come un vittorioso tour de force, rischia l’impeachment o perfino la galera, qualora si rifiutasse, come ha più volte sottolineato, di richiedere la proroga della data di uscita del Regno Unito dalla Ue, tuttora fissata al 31 ottobre, che ora è legalmente obbligato a richiedere.
Privo com’è di uno straccio di maggioranza, dopo un fiume di dimissioni - ultima solo in ordine di tempo quella della moderata Amber Rudd, senza contare le ventuno decapitazioni di colleghi di partito filo-remain - quella di Johnson comincia a profilarsi come la premiership più breve della storia. Eppure lui non molla, insistendo nel dire che non richiederà mai la proroga in questione come recita una legge appena promulgata e ripetendosi pronto a uscire senza accordo. La legge, lo ricordiamo, lo obbliga legalmente a richiedere l’estensione dell’articolo cinquanta del trattato di Lisbona, vale a dire un posticipo della data di uscita, presumibilmente fino al 31 gennaio 2020.
Il team di Johnson continua dunque a cercare un’impossibile via d’uscita tra il non piegarsi a richiedere formalmente la proroga e il non violare apertamente la legge. Via d’uscita che potrebbe essere il chiedere a un paese membro dell’Ue amico di porre il proprio veto all’estensione, come anche il richiederla ma con l’aggiunta di una seconda missiva che specifichi la contrarietà del governo a quanto espresso nella prima. Insomma, espedienti improbabili da parte di un primo ministro all’angolo.
Nel mentre lo speaker John Bercow, ex-tory apertamente filo-remain e sonoramente accusato di parzialità dal fronte del leave, ha annunciato le proprie dimissioni per il 31 ottobre. Lo ha fatto subito dopo che la legge anti no-deal promulgata dall’alleanza trasversale di deputati “ribelli” tory, labour, nazionalisti gallesi e scozzesi aveva ricevuto l’assenso reale. Nel suo discorso Bercow ha lanciato un monito all’attuale governo, avvertendo che “degradare il Parlamento ha conseguenze pericolose”. Considerato da alcuni il paladino del Parlamento e il difensore della democrazia, e da altri troppo parziale e filo-europeo, Bercow è diventato una celebrità negli ultimi tre anni di psicodramma nazionale su Brexit. I partiti di opposizione gli hanno tributato un’ovazione in piedi dopo l’annuncio della sua uscita di scena, mentre i deputati tory sono rimasti in silenzio.
I lavori della House of Commons a Westminster riprenderanno solo il 14 ottobre, due settimane prima della data prevista di una Brexit che continua a profilarsi come senza accordi (“no deal”), con tutto quel che ne potrebbe conseguire. Boris Johnson continua a dire che un “no deal” sarebbe “un fallimento della politica”, affermando che un accordo con la Ue prima del summit di ottobre è ancora possibile. Ma non ha ancora fatto proposte concrete per sbloccare l’impasse.