Le elezioni del 4 marzo 2018 ci avevano restituito dati netti e piuttosto omogenei in quasi tutto il Mezzogiorno, un risultato che per intensità non poteva che essere espressione di una grande domanda di cambiamento, di attenzione verso un territorio che non aveva trovato negli anni recenti risposte adeguate e che, soprattutto, non si riconosceva nella narrazione di un paese in ripresa che voltava finalmente pagina.
A distanza di oltre un anno non possiamo che constatare, purtroppo, come quella domanda di cambiamento sia rimasta, ancora una volta, inevasa. E che anzi il Mezzogiorno sia stato nuovamente accantonato nel dibattito pubblico e nell’iniziativa del governo. Non è evidentemente un caso, in questo senso, che le recenti elezioni europee abbiano visto risultati ben diversi, confermando un malcontento diffuso e la volontà di un cambio di passo, che ancora una volta però si orienta su proposte politiche che non mettono al centro il lavoro, i diritti e lo sviluppo sostenibile, ma offrono piuttosto risposte demagogiche, securitarie e liberiste.
Le poche politiche specifiche messe in campo si limitano alla conferma di alcuni strumenti già introdotti nella precedente legislatura, prevalentemente incentivi, mentre si riducono ancora le risorse destinate agli investimenti e alla coesione. Manca una visione complessiva delle esigenze di sviluppo dei territori, e tutto sembra ridursi a un tentativo di migliorare l’efficienza nell’uso delle risorse europee. Lo confermano anche le recenti dichiarazioni del ministro Tria: un “Piano per il Sud” di cui al momento non v’è traccia e che appare coincidere, quanto a tempistiche e risorse dichiarate, con l’avvio della nuova programmazione dei Fondi europei.
Programmare e utilizzare bene le risorse europee per la coesione è obiettivo certamente necessario, ma quand’anche ottenuto comunque non sufficiente, in assenza di adeguate politiche ordinarie. Le Regioni del sud ricevono ogni anno oltre un miliardo in meno di risorse ordinarie rispetto a quanto dovrebbero in percentuale alla popolazione, il tasso di disoccupazione è il triplo del nord e il doppio del centro (18,5% contro 6,6% e 9,6%), l’inattività al è al 45,5% contro una media nazionale del 34,3% (dati Istat riferiti al 2018), e mancano ancora 300mila occupati rispetto al periodo pre-crisi.
Al netto delle differenze interne alle diverse aree del Mezzogiorno, pur rilevanti, questi dati aggregati dovrebbero da soli suggerire l’urgenza di interventi strutturali, che puntino alla ripresa degli investimenti pubblici, anche come leva per quelli privati, e alla creazione di buona occupazione. L’altro aspetto grave della condizionale occupazionale nel Mezzogiorno, infatti, al di là del dato quantitativo, è che è esploso il lavoro povero, sotto retribuito e irregolare. Anche a fronte di un aumento relativo degli occupati, infatti, non si è registrata una corrispondente riduzione della povertà, mentre una parte consistente dei nuovi contratti è rappresentata da part-time involontari.
Di fronte a un quadro già di per sé abbastanza fosco, che vede invertirsi anche i timidi segnali di ripresa degli anni scorsi, anziché moltiplicare gli sforzi per colmare il divario territoriale, è emersa nell’iniziativa governativa l’ipotesi del regionalismo differenziato, che si sta configurando come una vera e propria minaccia alla coesione e all’unità sostanziale del nostro paese.
La richiesta di una nuova centralità per le politiche di coesione e di sviluppo del Mezzogiorno ha dunque un’urgenza particolare, che abbiamo condiviso con Cisl e Uil nella definizione della piattaforma unitaria in vista della legge di bilancio. Rivendichiamo investimenti pubblici nelle infrastrutture sociali, sanità, servizi sociali e istruzione; un piano di investimenti su opere infrastrutturali per connettere efficacemente territori e persone da e tra le diverse aree del Mezzogiorno; un rafforzamento delle amministrazioni pubbliche in termini di personale e competenze, con un piano straordinario di assunzioni; interventi per la prevenzione, manutenzione e la messa in sicurezza; un nuovo modello di governance delle politiche industriali e di sviluppo; interventi per stimolare l’innovazione, la crescita dimensionale e l’accesso al credito del sistema produttivo meridionale, e un reale cambio di passo sulle “Zone economiche speciali”; una vera lotta al lavoro irregolare e alla criminalità.
È proprio su queste priorità, sulla necessità di rilanciare investimenti e occupazione di qualità, che il sindacato ha costruito, unitariamente, la manifestazione nazionale del 22 giugno a Reggio Calabria. Una mobilitazione nel Mezzogiorno, in una delle regioni, la Calabria, che più soffre i divari di sviluppo. Ma anche una manifestazione che parla a tutta la nazione. Siamo convinti infatti che proprio dal sud dobbiamo ripartire per unire il paese, e per rivendicare la centralità del lavoro come leva per contrastare le profonde diseguaglianze sociali, economiche e territoriali che attraversano l’Italia.