Nel corso del 2015 il legislatore è intervenuto pesantemente a modificare e abrogare normative di tutela dei lavoratori, in nome della flessibilità del lavoro dipendente. Si è così liberalizzato il ricorso al contratto a termine: non vi è più il limite causale ma solo quello temporale. E il “decreto dignità” dell’attuale governo segue questa linea, ponendo più vincoli solo per la durata e le proroghe, ma non reintroducendo limiti alla stipulazione.
Il jobs act in tema di licenziamenti introduce, ancor più della legge Fornero del luglio 2012, strettissimi margini di tutela. Tradotti, tranne pochi casi “estremi”, nella monetizzazione del recesso illegittimo, con indennizzi minimi legati solo all’anzianità lavorativa. La recente sentenza 194/2019 della Corte Costituzionale ha inciso su questi, togliendo l’automatismo del risarcimento e affidando al giudice la determinazione dell’indennizzo. Sentenza importante, senza dubbio, ma che poco incide sull’impianto generale della normativa.
Più che nell’ambito della flessibilità del lavoro dipendente, siamo in quello dello smantellamento del valore intrinseco del lavoro come previsto dalla Costituzione, rovesciando il criterio della tutela del lavoratore, per esaltare quello della libertà di impresa, pure previsto dall’articolo 41, purché però non contrasti con “l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. L’interpretazione sul punto ha impegnato a lungo il dibattito dei giuslavoristi, anche se non c’è qui lo spazio per svilupparlo.
Un altro aspetto della demolizione del concetto di diritto al lavoro, caposaldo dell’ordinamento originario, merita una riflessione: è la riforma dell’articolo 2103 codice civile, che regola il diritto alle mansioni e alla qualifica previsti dal Ccnl. Questa norma è stata sostituita, con radicali modifiche, dal decreto legislativo 81/2015. In sostanza, mentre si prevedeva che il lavoratore avesse diritto di mantenere le mansioni, e relativa qualifica, previste al momento dell’assunzione, o le altre, superiori, successivamente acquisite e che ogni patto contrario fosse nullo, con il decreto 81/2015 si è ampliato il potere del datore, che può adibire il dipendente a mansioni “riconducibili” allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Non può sfuggire la differenza che si è venuta a creare. Il significato pregnante della norma originaria era quello di salvaguardare il diritto del lavoratore alla propria posizione in termini di certezza della collocazione nel contesto aziendale. Il potere del datore di lavoro era limitato all’’adibizione’ a mansioni diverse, ma equivalenti, per salvaguardare le chance di carriera e l’arricchimento professionale. Si prevedeva la nullità di patti contrari, affidando alla contrattazione collettiva la regolazione concreta della materia, così tutelando il lavoratore da pressioni aziendali, spesso ricattatorie.
Nella nuova versione, lo spazio decisionale del datore è oltremodo ampliato, rimanendo il solo limite della categoria, impiegato od operaio, rivestita dal lavoratore. Nella pratica, assistiamo a spostamenti non motivati da ragioni oggettive, anche se mascherati (talvolta nemmeno) da motivi di riorganizzazione aziendale. Inoltre, la norma attuale prevede che “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”. Ancora, la norma consente ai “contratti collettivi” (non meglio specificati) la possibilità di prevedere altre ipotesi di inquadramento inferiore, purché rientranti nella categoria legale di appartenenza.
La nuova normativa è di enorme importanza per i datori, tanto che il mutamento di mansioni è divenuto un ottimo strumento per ricattare o punire, e comunque disgregare i lavoratori, ponendo in atto la strategia della “guerra tra poveri”. Ma, alla luce dei fondamentali principi del nostro ordinamento, che pongono come regola generale dei rapporti contrattuali la buona fede e la correttezza, e soprattutto alla luce dei principi costituzionali di razionalità e imparzialità nell’esercizio del potere legislativo, non si può permettere che l’ampliamento del diritto del datore sconfini in mero arbitrio, dovendosi sempre anteporre, per i propri atti, l’esigenza di ragioni oggettive e non strumentali a fini illeciti.
In questo senso si sta orientando la gran parte della giurisprudenza di merito, pur dovendo mantenersi nei limiti dell’insindacabilità della qualità delle scelte organizzative aziendali (legge 183/2010). Sono intuitivi e innumerevoli i motivi che spesso impediscono al lavoratore di rivolgersi al giudice del lavoro. E’ soprattutto all’azione sindacale che spetta di arginare lo strapotere datoriale, avallato dalla situazione legislativa e dal clima politico prevalente.