L’apartheid politico in Sudafrica non c’è più, smantellato a partire dall’inizio degli anni ’90 fino al ’94, quando Nelson Mandela venne eletto presidente della Repubblica. Ma i sudafricani, che sono stati chiamati alle urne lo scorso 8 maggio, accusano lo scomparso padre della nazione e il suo partito, l’African national congress (Anc), di non essere stati in grado di sconfiggere l’apartheid economico, che ancora colpisce la maggioranza della popolazione nera.
I risultati elettorali confermano un po’ questo malcontento: in un contesto che ha visto scendere la partecipazione al voto dall’88% di dieci anni fa all’attuale 65,5%, il partito di maggioranza assoluta, che nelle elezioni locali del 2016, a causa degli scandali che hanno minato la popolarità di Jacob Zuma, era sceso al 54% dei consensi, minimo storico, è riuscito questa volta a risalire arrivando al 57%, ma sempre in calo rispetto alle precedenti politiche, scendendo per la prima volta sotto il 60%. In ogni caso per il capo dello Stato, Cyril Ramaphosa, questo risultato equivale a un nuovo mandato.
In calo anche l’Alleanza democratica (Da), il principale partito di opposizione, che si colloca al secondo posto con il 21,88% dei voti contro il 22,23% di cinque anni fa. Interessante invece l’aumento dei Fighters for economic freedom (Eff), il partito della sinistra radicale, che è aumentato nettamente passando dal 6,35% del 2014 al 10,07% di oggi. “Siamo soddisfatti della nostra posizione in quanto siamo ben al di sopra dei nostri precedenti risultati”, ha detto Dali Mpofu, leader del partito. L’Eff raccoglie con tutta evidenza consensi provenienti dall’Anc, all’interno del quale lo storico Partito comunista sudafricano non riesce ad incidere più di tanto sulla politica del gruppo dirigente dominante.
Come dicevamo, l’Anc paga il prezzo degli scandali avvenuti durante l’era Zuma, e di una disattenzione sempre più forte nei riguardi delle esigenze della maggioranza della popolazione, i cui problemi primari sono ben lungi dall’essere risolti, accomunando in questo il partito che fu di Mandela a tutte le altre grandi forze progressiste sparse nel mondo.
La disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è molto alta; e l’accesso ai servizi – luce, acqua, assistenza sociale, educazione, sanità - è molto complicata, come pure negato è il diritto alla casa, da subito affrontato dopo la fine dell’apartheid ma senza grandi risultati.
Le conseguenze di questo stato di cose sono drammatiche: crescono la criminalità, la prostituzione e l’uso delle droghe pesanti da parte dei giovani. In un contesto economico dominato dai bianchi, a parte una minoranza di imprenditori neri, e socialmente così problematico, Ramaphosa è stato riconfermato presidente il 25 maggio dal Parlamento con la promessa di cambiare questa disastrosa situazione.
Uno dei punti dirimenti è la riforma agraria, la cui attuazione è negli obiettivi del presidente che però, malgrado le intenzioni, sta limitando i casi di esproprio ai bianchi senza indennizzo, per non alienarsi gli investitori stranieri nel settore agricolo. In realtà l’obiettivo dei settori più avanzati del paese è una modifica della sezione 25 della Costituzione, per consentire appunto l’espropriazione senza compensazione a favore dei sudafricani neri, nettamente più poveri dei bianchi.
Secondo dati di AgriSa, la principale associazione di categoria che rappresenta gli agricoltori in Sudafrica, i bianchi posseggono circa il 73% dei terreni agricoli, pur costituendo poco più dell’8% della popolazione. In un paese di 55 milioni di abitanti, gran parte delle terre più produttive si concentra nelle mani di 34mila grandi agricoltori bianchi, che di fatto dominano un settore, quello agricolo, che nel suo insieme contribuisce per circa il 12% al Pil del paese più industrializzato del continente.
Qualora andasse in porto questa riforma, tanto attesa da decenni, ad usufruirne sarebbero appunto i disoccupati urbani e rurali, le donne e altre popolazioni rurali che vivono in terra comunale. Tra questi ci sono i cosiddetti “labour tenants”, legittimi proprietari delle terre in cui sono nati, e dalle quali sono stati cacciati dai coloni bianchi. Terre nelle quali vorrebbero ritornare.
Se Ramaphosa manterrà la promessa - così come aveva fatto recentemente con l’introduzione del salario minimo, decisione non sufficiente ma comunque apprezzata dallo storico sindacato sudafricano Cosatu - forse chi ha atteso anni e anni per avere un po’ di giustizia potrà ricominciare a sperare.