Voto operaio: partiti senza classe - di Gian Marco Martignoni

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Nel fascicolo numero 4/2018 di “Quaderni di Rassegna sindacale”, una serie di interessanti analisi sul voto dei lavoratori nelle elezioni-terremoto del 4 marzo 2018.   

Per approfondire l’analisi del terremoto politico del 4 marzo 2018 è senz’altro proficua la lettura dei saggi contenuti nella sezione “Lavoro e orientamenti elettorali” del fascicolo numero 4/2018 dei “Quaderni di Rassegna sindacale”. La riflessione complessiva, infatti, attraverso il supporto di una massa ingente di tabelle statistiche e la fondamentale suddivisione fra le tendenze registrate nei lavoratori e le lavoratici iscritti al sindacato e i non sindacalizzati, permette di comprendere le cause e le ragioni del divorzio consumato, in proporzioni inedite, fra la sinistra e il mondo del lavoro.

Non che nel passato fossero mancati i segnali del progressivo allontanamento, in particolare di lavoratori e lavoratrici sindacalizzati, dai partiti nominalmente pro-labour, addirittura su scala europea. Infatti, per Liborio Mattina, già a partire dagli anni ‘90 sono individuabili alcune linee di questa tendenza, in quanto la crescita delle diseguaglianze, e le palesi difficoltà riscontrate dalle organizzazioni sindacali rispetto alla tutela delle condizioni di lavoro e salariali, avevano minato il grado di soddisfazione nei confronti della democrazia e della fiducia nel complesso delle istituzioni, nonché quella nei partiti e nel ceto politico.

La recessione economica esplosa nel periodo 2008-14 e la conseguente diffusione dell’insicurezza sociale hanno acuito queste insoddisfazioni, tanto che l’imprevisto e strepitoso successo nel 2013 del Movimento 5 Stelle (M5S) ha comportato il dimezzamento dei consensi della sinistra rispetto alle elezioni del 2006. Quanto abbiano inciso nella percezione dell’elettorato del Pd le scelte compiute al Lingotto dall’allora segretario Walter Veltroni, con l’infausta teorizzazione dell’equidistanza fra capitale e lavoro, e successivamente addirittura le politiche contro il lavoro perseguite da Matteo Renzi con il jobs act, la buona scuola e il referendum sulla Costituzione invisa al capitale finanziario, non sfugge alla pertinente analisi di Lorenzo De Sio.

Quest’ultimo documenta come l’abbandono di una “identificazione di classe” abbia trasformato il Pd nel partito di “una élite economica più che culturale”, determinando una completa rottura con l’immaginario delle classi popolari. Una tesi, quella di De Sio, che guarda caso coincide con le testimonianze dell’inchiesta compiuta da Loris Campetti in alcune province industriali del nostro paese, raccolte in seguito nel libro “Ma come fanno gli operai”.

Paolo Feltrin e Serena Mencarelli invece, nell’esaminare lo sfondamento della Lega al nord, dove quadruplica i voti, e soprattutto in Emilia-Romagna, dove passa dal 2,6% al 19,2%, sottolineano come l’esito del 4 marzo sia di fatto un voto di carattere “economico-sindacale”, dal quale emergono due egemonie a base territoriale, nettamente differenziate rispetto alle parole d’ordine che hanno catturato la maggioranza dell’elettorato.

Inoltre, pur non trascurando il sensibile impatto che ha avuto sui media il fenomeno migratorio, i due analisti insistono sulla centralità dell’insicurezza economica relativamente alla rivolta popolare di cui ha beneficiato il M5S nel sud del paese, dove ha incamerato il 55,6% dei suoi consensi complessivi. Rimarcando, tra l’altro, come i partiti tradizionali non abbiano previsto nei loro programmi proprio quella necessaria attenzione alle “politiche di promozione dei ceti medio-bassi”.

E’ infine rilevante il contributo di Nadja Mosimann, Line Rennwald e Adrian Zimmermann, poiché nell’affrontare l’avanzata delle formazioni della destra radicale e populista, propone un interessante parallelo con la “demagogia pseudo-socialista” del fascismo, dimostrando come quel tipo di retorica mirava esclusivamente ad attrarre le fasce più deboli e acritiche del mondo del lavoro. La propaganda odierna contro l’immigrazione ha lo stesso obiettivo. Così come le proposte in materia di un welfare sciovinista, rispetto all’ingresso degli immigrati nel mercato del lavoro o al loro accesso alle abitazioni popolari, sono studiate per contrastare l’idea di solidarietà propugnata storicamente dal movimento operaio.

Questa strategia è non casualmente finalizzata alla delegittimazione del ruolo ricoperto dalle organizzazioni sindacali, giacché - stante il venir meno del compito pedagogico assegnato sul piano valoriale ai partiti di sinistra - esse rappresentano il baluardo più ostile alla penetrazione dei messaggi reazionari all’interno delle masse proletarie e in generale nella società.

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