Di un’altra linea di politica economica non si vede neppure l’ombra: la manovra economica del governo è espansiva solo a parole.
La denuncia delle politiche ciecamente rigoriste della Ue va fatta e fino in fondo. Così come vanno prese le distanze dalle soluzioni nazional-sovraniste che circolano per il continente e a casa nostra. E’ il tema delle prossime elezioni europee. Solo che ad entrambe si dovrebbe avere la capacità di contrapporre un’altra linea di politica economica. Ma di questa non si vede neppure l’ombra, dal momento che la manovra economica nel suo complesso è espansiva solo a parole.
Se si volesse puntare ad una soluzione keynesiana applicata alle attuali condizioni dell’economia del nostro paese e non solo (visto che anche la Germania ha sfiorato la recessione “tecnica”), non si dovrebbe solo pensare a aumentare i consumi ma anche gli investimenti pubblici in settori innovativi che garantiscano lavoro e difesa dell’ambiente. Ma li cerchereste invano nella manovra governativa.
I due provvedimenti cardine, un reddito di cittadinanza che tale non è, essendo condizionato all’accettazione di collocazioni lavorative persino a termine, e quota 100 che non cancella affatto la “riforma” Fornero, sono peraltro bersagliati dalla guerriglia emendativa che i due contraenti il contratto di governo si fanno a livello parlamentare. In ogni caso è già previsto che, se mancheranno le risorse, un provvedimento si mangerà l’altro. Comunque con le cifre previste dall’uno, e la riduzione dell’assegno pensionistico dell’altro, c’è ben poco da sperare in tema di rilancio della domanda interna.
Tutto ciò non è solo frutto di dilettantismo. La costruzione di una dittatura di maggioranza, quale quella che ci troviamo di fronte, richiede un processo di destrutturazione della coesione nazionale, sia sul piano della sua costituzione economica che di quella istituzionale, che peraltro tra loro si incrociano. Ragioni di spazio ci costringono qui ad occuparci solo della prima; anche se la seconda, si pensi all’autonomia regionale differenziata, non è certo meno grave.
Questa manovra economica fa trasparire un disegno più di fondo, al di là dei ben dieci condoni che sotto varie forme sono stati introdotti tra decreto fiscale e manovra. Il primo di questi concede una cancellazione di mini-cartelle per oltre 12 milioni e mezzo di contribuenti, quindi di 32 miliardi giudicati come non più recuperabili. Mentre sono incassabili i voti dei beneficiari.
Ma l’obiettivo assai più ambizioso è quello di portare avanti in modo strisciante ma deciso una integrale controriforma fiscale, un mantra del neoliberismo. Non si tratta solo della “flat tax” proposta a puntate, anche se il primo assaggio è micidiale. Il regime forfettario potenziato dal 2019 scava un largo vallo tra lavoratori autonomi e dipendenti, tra i titolari di partita Iva tassati con l’Irpef e quelli che si avvantaggeranno della “flat tax” prevista nella legge di bilancio. I risultati di simulazioni di fonte padronale indicano che un professionista con compensi annui di circa 64mila euro pagherà 10.200 euro di imposte in meno di un lavoratore dipendente con reddito simile e due figli a carico.
Non contento di ciò, il governo prospetta una ipotesi di riforma generale addirittura entro un paio di mesi. Le prime avvisaglie non sono certamente tranquillizzanti. Quando fu fatta la riforma del 1971 fu varata una commissione di studiosi sotto la guida di Cesare Cosciani. Oggi di simili studiosi che collaborino con questo governo non se ne vede neppure l’ombra. Il Parlamento, al quale sarebbe affidata istituzionalmente la materia, si occupa di fisco solo per la tutela di interessi corporativi. Ma non siamo solo di fronte a disorganicità. Se invece di inseguire le dichiarazioni sornione (dico, non dico) di qualche sottosegretario - per esempio sulla sparizione degli 80 euro di renziana memoria e la loro sostituzione con un sistema di deduzioni – guardiamo alla legge di bilancio e connessi, ne emerge un quadro pessimo.
Introducendo altre nuove imposte sostitutive si mina dalle fondamenta l’Irpef. Il nostro sistema fiscale, infatti, viene così a comporsi sempre più di tributi su stipendi e pensioni, basandosi sempre meno su un’imposta generale e progressiva sui redditi delle persone fisiche. E’ un cambiamento di paradigma e di sistema che liquida sottotraccia il principio della progressività contenuto nell’articolo 53 della Costituzione, e che rischia di consolidarsi alla luce del sole in una prossima iniziativa legislativa governativa.