Nel dramma che sta vivendo il Venezuela si concentrano tutti gli elementi positivi e negativi della storia di questo tormentato continente. Il desiderio sacrosanto di voler e poter gestire le proprie risorse senza ingerenze esterne; e la necessità di cancellare o comunque ridurre le disuguaglianze, come ha fatto il socialismo bolivariano di Hugo Chavez prima e di Nicolas Maduro dopo. Poi l’ingerenza sempre presente degli Stati Uniti, sostenitori di una opposizione rissosa e golpista. E alla fine, di fronte alle accuse di torsioni autoritarie, l’apertura del governo nei confronti della destra all’indomani della vittoria elettorale, malgrado l’aggressività dell’avversario e degli Usa. Sullo sfondo, una crisi economica pesantissima - si parla di inflazione a cinque cifre - che ha di fatto quasi cancellato le conquiste sociali della rivoluzione e messo in evidenza la fragilità di un paese troppo dipendente dalla sua principale risorsa, ovvero il petrolio, di fronte allo strangolamento economico delle sanzioni statunitensi ed europee.
Ma veniamo ai fatti. Maduro ha vinto le elezioni dello scorso 20 maggio con il 67,7% dei consensi, e con un’astensione che ha di poco superato il 50% degli aventi diritto al voto. La Mud (Mesa de la unidad democratica), di opposizione, non ha partecipato al voto e ha rivendicato questo fattore. Anche se in ogni caso lo zoccolo duro del chavismo ha resistito, garantendo al presidente oltre sei milioni di voti contro i sette del 2013. Quella parte dell’opposizione che ha deciso di partecipare ha ottenuto risultati modesti: dal 21,1% dell’ex governatore ed ex chavista Henri Falcòn, al 10,8% del pastore evangelico Javier Bertucci, fino allo 0,4% di Quijada.
Nonostante che fino ad oggi tutte le competizioni elettorali venezuelane siano state riconosciute corrette da osservatori internazionali indipendenti, la Casa Bianca ha approvato immediatamente nuove sanzioni con un ordine esecutivo che “impedisce al regime di liquidare asset statali a prezzi stracciati a scapito dei suoi cittadini”, ivi compresi quelli legati alla compagnia petrolifera nazionale Pdvsa. Un’iniziativa che dimostra come gli Usa, soprattutto con l’attuale impresentabile amministrazione Trump, vogliano estendere il ‘modello cubano’ in quanto a sanzioni contro tutti coloro che evidentemente non assecondano la loro politica invasiva.
Questa scelta è stata assecondata dal cosiddetto ‘gruppo di Lima’ che riunisce 14 paesi latinoamericani, a dimostrazione che il caso venezuelano si inserisce in un contesto ben diverso da quello di qualche anno fa, quando era in vita Hugo Chavez, ovvero quello del “rinascimento latinoamericano”, con gran parte dei paesi del continente governati allora dalla sinistra, sia pure nelle forme più diverse.
Ora siamo di fronte ad uno scenario diametralmente opposto, con un continente quasi completamente in mano alla destra, con tutte le difficoltà che ne conseguono per Maduro, costretto a destreggiarsi in un contesto non proprio amichevole. Basteranno il sostegno russo-cinese, che più volte ha salvato il paese dal default, e anche quello del Vaticano che spesso si è espresso per una ripresa del dialogo, ad evitare il peggio? Difficile rispondere. Comunque la cosa certa è che l’opposizione della Mud è impresentabile, rissosa e violenta, e non può certo rappresentare un’alternativa democratica a Maduro.