Gucci, il lusso non conosce crisi - di Frida Nacinovich

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Chi percorre l’autostrada del Sole all’altezza di Firenze quasi ci sbatte contro. Il grande stabilimento Gucci è una cattedrale del lusso, quello che non conosce crisi, che vende prodotti griffati (e costosi) ai quattro angoli del pianeta. Qui si progettano, si creano, e si preparano borse, portafogli, e tutti gli altri oggetti con il marchio della doppia ‘G’. Ma dietro le quinte dei laboratori, degli uffici design, c’è un mondo intero fatto di servizi che, nell’odierna contemporaneità, vengono affidati a ditte esterne. La fabbrica fordista ha lasciato il posto ad un macrocosmo di aziende specializzate in tutti i vari settori di cui si compone la factory del ventunesimo secolo. Satelliti del pianeta Gucci, che contribuiscono all’iconografia di un marchio globale del lusso. Cooplat è una delle più grandi realtà cooperative della Toscana nel settore dei servizi. Conta duemila trecento addetti, con sedi non soltanto nella terra di Leonardo, Michelangelo, Galileo ma anche nel resto della penisola. Si occupa principalmente di pulizie e manutenzioni civili, industriali e ospedaliere ma anche di logistica. Gucci l’ha scelta e si è, per così dire, fidanzata con Cooplat per svolgere tutta una serie di servizi che non riguardano solo lo stabilimento di Scandicci ma anche gli outlet dove campeggia il brand della doppia ‘G’. Come ad esempio l’outlet village di lusso ‘The mall’ di Reggello, poco distante dall’uscita di Incisa Valdarno dell’Autosole. Marco Sernesi lavora per Cooplat dal 2012. Delegato Filcams Cgil nella Rsa, è impegnato in un ‘cantiere’ (lo chiamano così) nel quale operano un centinaio di lavoratori fra addetti alle pulizie, al facchinaggio, alla logistica e alle manutenzioni. L’appalto risponde direttamente al gruppo Gucci, che fa capo ai francesi di Pinaut, un colosso del lusso. Sernesi, nello specifico, si occupa dell’aftersale, tradotto alla lettera del dopo vendita. “In concreto - racconta - sono in contatto con i fornitori del gruppo per la riparazione degli eventuali prodotti difettosi”.

Nel ‘cantiere’ il lavoro non manca. Buon segno, ma tutte le rose hanno le spine. “Uno dei tasti dolenti - spiega Sernesi - sono gli orari di lavoro. Spesso superiamo le 45-46 ore settimanali. Per questo motivo c’è una vertenza aperta. Il problema, consentimi la metafora, è quello di portare dall’altra parte del fiume sia la capra che i cavoli, conciliare le esigenze di lavoratori che ricorrono abitualmente agli straordinari e quindi guadagnano più degli altri con le necessità altrettanto importanti del resto della vita quotidiana”. Come si è detto, Cooplat è una grande realtà nazionale. “Solo per fare un esempio, nell’area fiorentina non c’è solo il nostro ‘cantiere’. Cooplat ha anche appalti nel polo museale, nel settore sanitario, e in quello della gestione dei rifiuti, l’ex Quadrifoglio che ora si chiama Alia”. Sernesi e i suoi colleghi hanno un contratto di categoria che prevede cinque giorni lavorativi la settimana. “Ci sono anche i festivi di lavoro, naturalmente. Ma più che il Natale, o le domeniche di servizio, i periodi più impegnativi per noi sono quelli in prossimità delle sfilate. Per chi viene a vederle lo spettacolo dura un’ora o poco più. Ma dietro le quinte della passerella ci sono almeno due mesi di lavoro”.

L’età media dei lavoratori Cooplat in appalto al gruppo Gucci è piuttosto alta. “Circa quarantacinque anni - puntualizza Sernesi - tutti con almeno cinque, sei anni di anzianità. L’esperienza nel settore, va da sé, è assai apprezzata dalla capofila. Quando Cooplat arrivò in Gucci, nel 2012, la prima cosa che fu concordata con il gruppo fu quella di mantenere la struttura preesistente”. Il rapporto con il cliente richiede diplomazia e flessibilità: “Non per caso i nostri contratti sono in gran parte a tempo pieno, e indeterminato. Anche chi viene assunto a tempo determinato ha contratti lunghi. E se supera l’esame, quasi sempre viene confermato. Bisogna sapersi adattare alle mansioni più svariate, dalla logistica ai campionari fino agli allestimenti per le sfilate”. Il settore del lusso ha risentito meno degli altri della crisi. I prodotti di nicchia con la doppia “G” sono riservati ai ricchi del pianeta. Una minoranza, ma non badano a spese quando si tratta di indossare o portare con sé capi firmati, prestigiosi, assai costosi. “Mi sono affacciato a questo mestiere - tira le somme Sernesi - nel 2008, quando la crisi ha iniziato a mordere. Ma già nel 2012, almeno nel mio ‘cantiere’ il peggio era passato. Tant’è vero che, se all’epoca eravamo venticinque nel mio settore specifico, attualmente siamo diventati circa quaranta”. Potenza del made in Italy di lusso, apprezzato ed esportato negli Stati Uniti, in Giappone, nelle ricche nazioni del nord Europa, e naturalmente nel Golfo Persico.

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