Mohammed che dice no al lavoro nero, e sogna di fare dolci - di Frida Nacinovich

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Parli con Mohammed al telefono, e dopo qualche minuto pensi che dall’altro capo dell’ormai metaforico filo ci sia un sindacalista esperto, rodato da anni e anni di vertenze e di lotte. Invece Mohammed Dialo ha solo 25 anni. Ma la sua vita, dall’adolescenza ad oggi, potrebbe diventare un documentario, o un libro, sul destino dei milioni di giovanissimi migranti che affrontano pericoli inauditi per fuggire alla fame, alla miseria, alle guerre, e cercare una vita decente nel ricco - e sempre meno civilizzato - continente europeo.

Viene dal Senegal Mohammed, e porta il suo paese dentro il cuore. “Signora, vuole sapere quando sono arrivato?”. La vita ‘europea’ di questo ragazzone alto, grosso e pieno di vita inizia nel 2011, quando intraprende il più classico dei viaggi della speranza: Senegal-Libia-Canale di Sicilia. “Era l’ultima settimana di maggio del 2011, mi ricordo che era un venerdì, forse il 27, quando con i miei compagni di avventura sono arrivato a Lampedusa. Dall’isola ci hanno portati al centro di accoglienza di Manduria, in Puglia”. Una storia come tante fra i migranti: l’approdo, i primi soccorsi, un tetto (italiano) sulla testa.

Poi un ulteriore trasferimento al nord, a Torino. “In Piemonte ho imparato l’italiano, ho preso la licenza media e ho iniziato a imparare un mestiere”. Scuola alberghiera, perché il sogno di Mohammed è quello di fare il pasticcere. Nell’attesa che il sogno diventasse realtà, la vita è andata avanti. E la vita di tanti giovani migranti è quella di sbarcare il lunario dove c’è richiesta di lavoro. Di nuovo in Puglia quindi, a lavorare nei campi. Un’esperienza non indimenticabile. “La prima volta ho lavorato per quasi otto mesi, sette mesi e venti giorni per la precisione. Raccoglievo carciofi ed altri ortaggi in un piccolo paese del brindisino, annaffiavo, dissodavo il terreno, nel tempo ho imparato anche a guidare il trattore. Quando alla fine sono andato a veder le buste paga, mi sono accorto che mi avevano pagato i contributi per soli diciotto giorni”. Viva l’Italia...

Spaccarsi la schiena otto ore nei campi per trenta euro, senza contributi, non era certo la vita che sognava. E il ragazzone senegalese, come sì vedrà, non è certo uno che sta zitto di fronte ai soprusi. Oggi, grazie agli insegnamenti della Flai Cgil, Mohammed ha le idee chiare: “Non pagare i contributi non significa solo guadagnare meno, vuol dire anche rubare il futuro a ragazzi che in pensione non potranno mai andare. E truffare lo Stato, che senza quei contributi trova sempre più difficoltà ad accogliere chi, come me, ha attraversato il mare cercando una vita migliore”. In questi anni in Italia, Mohammed Dialo ha imparato un sacco di cose. Sul campo, non solo metaforicamente: “Ho visto con i miei occhi i caporali che sfruttavano i miei compagni promettendo permessi di soggiorno validi per tutta Europa. I ragazzi volevano andare in Germania, ma i padroni terrieri hanno troppa convenienza a trattenerli lì”. Senza trasparenza i diritti se ne vanno in fumo, come gli arbusti e le spunte degli alberi nel camino. Nel tempo, grazie alla Flai, Dialo è diventato un punto di riferimento per i migranti. “In questi giorni stiamo lottando contro la burocrazia. L’ostello di Brindisi, un dormitorio dove alloggiano molti di noi, viene chiuso ogni mattina alle otto e riaperto alle otto di sera. Una situazione insopportabile per giovani che partono per il lavoro alle quattro e mezza del mattino e che, tornando a casa nel primo pomeriggio, vorrebbero farsi una doccia, cambiarsi d’abito, riposarsi o passare un po’ di ore libere fuori”.

Dialo non si nasconde mai, è fiero della sua storia personale e non ha paura di raccontarla. Così la Cgil ha deciso di farlo parlare a Lecce, durante le tre “Giornate del lavoro” di metà settembre. “Non era la prima volta che parlavo in pubblico. In questi anni mi è successo di intervenire a iniziative pubbliche anche all’estero, in Belgio. Perché, come ogni senegalese, la mia lingua madre è il francese”.

Fra poliziotti sempre “troppo nervosi” quando hanno a che fare con i migranti; politici “che fanno la guerra in Libia e poi si lamentano per l’arrivo dei disperati del sud del mondo”; sfoghi quotidiani di amici e compagni costretti a lavorare al nero (o con contributi parzialissimi); le ordinarie storture di un sistema di accoglienza che non dà garanzie abitative (centri sotto dimensionati in condizioni fatiscenti), Mohammed Dialo, neanche trentenne, si è già fatto un’idea precisa dello stato delle cose: “La legge deve essere uguale per tutti - conclude - noi migranti cerchiamo di rispettare sempre voi italiani. Però vorremmo che anche voi italiani ci rispettaste”. Ma spesso tutto questo non succede. C’è tanto sfruttamento. E non solo quello.

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