Dalla travagliata “riforma” della pubblica amministrazione qualche risposta per il precariato?
Fin dal suo insediamento, il governo Renzi, ha puntato molto sulla riforma della pubblica amministrazione. Molto di quanto sbandierato, soprattutto in relazione al presunto efficientamento della macchina pubblica, equivale però a poco più di spot pubblicitari.
Fin dalla scelta del ministro, senza alcuna competenza specifica nel settore, qualche perplessità sul percorso sorgeva più che legittima. Nell’agosto 2015 il Parlamento vara la legge delega 124 affidando al governo, e sottraendo di fatto qualsiasi confronto democratico alle parti sociali, il progetto di riforma della pubblica amministrazione. Deleghe che il governo doveva esercitare entro 12 mesi dal varo della legge, ad eccezione del decreto sul pubblico impiego per il quale aveva a disposizione 18 mesi.
Con lo scorso mese di febbraio è arrivato anche il decreto attuativo della legge delega sul pubblico impiego, che prova a riscrivere il Testo Unico degli impiegati civili dello Stato: il Dlgs 165/2001. Anche altri decreti attuativi sono passati al vaglio della Ragioneria generale ed hanno iniziato l’iter parlamentare nelle commissioni: la nuova disciplina della valutazione con il superamento del Dlgs 150/2009, il riordino delle carriere delle forze di polizia, delle funzioni dei vigili del fuoco e dell’Aci/Pra.
Un percorso decisamente travagliato che, oltre a vedere l’attività della Fp Cgil, generalmente propositiva ma a volte di sacrosanta opposizione, ha trovato anche lo scoglio della Consulta. Tra i punti di chiara opposizione, in particolare, l’infamia della cancellazione del corpo forestale dello stato che ha prodotto, tra gli altri disastri, la militarizzazione forzata di lavoratori che avevano scelto un corpo civile, imponendo loro di rinunciare anche ad essere iscritti al sindacato.
Su ricorso della Regione Veneto, la Consulta ha bocciato alcune parti della legge delega, imponendo la revisione di alcuni decreti attuativi tra i quali quello che prevede il licenziamento disciplinare. Inutile ricordare che le regole per i licenziamenti esistevano già nei contratti collettivi. La Consulta ha deciso che il percorso derivato dall’arroganza del governo, che prevedeva solo l’acquisizione del “parere” della conferenza Stato-Regioni fosse insufficiente, e che la prassi corretta deve prevedere “l’intesa”. Sempre in conseguenza della bocciatura della Consulta, alcune modifiche sono state necessarie anche per i decreti che hanno interessato la dirigenza sanitaria e le società partecipate (mentre la riforma sulla dirigenza della Repubblica è stata definitivamente accantonata).
Arrivando velocemente al decreto sul pubblico impiego sopra richiamato, che sta proseguendo il suo iter abbastanza inutile in Parlamento, poiché le commissioni alle quali è affidato il compito di valutazione non avranno comunque un parere vincolante per eventuali e auspicabili modifiche, va rilevato che nella norma transitoria e finale si introduce una novità che potrebbe essere oggettivamente apprezzabile. Il condizionale è d’obbligo. La norma prevede che le pubbliche amministrazioni possano procedere, nel triennio 2018/20 a percorsi di stabilizzazione del personale, trasformando i rapporti di lavoro a tempo determinato o flessibile in rapporti a tempo indeterminato.
Per il personale che abbia svolto per più di tre anni, anche non continuativi negli ultimi otto, attività con rapporto di lavoro a tempo determinato presso l’amministrazione che procede alla stabilizzazione e che sia stato assunto tramite procedure concorsuali, si può procedere all’assunzione a tempo indeterminato. Il personale, con rapporto di lavoro flessibile, che abbia svolto almeno tre anni di attività negli ultimi otto – anche non continuativi - presso l’ente che stabilizza, ha diritto a partecipare a procedure concorsuali con il 50% dei posti riservati. Gli enti predetti potranno prorogare i rapporti di lavoro a tempo determinato fino al 31 dicembre 2018, nei limiti delle risorse utilizzabili per le assunzioni a tempo indeterminato.
Di fatto, oltre alla parzialità della risposta rispetto al problema, si esclude tutta la fascia di lavoratrici/lavoratori che sono precari da una vita ma senza la necessaria continuità presso l’ente che stabilizza. Ora, viste le precedenti decisioni della Consulta, non ci resta che lavorare sulla conferenza Stato-Regioni per far sì che l’intesa sia condizionata ai miglioramenti necessari.