
Il 2 aprile 2025 Donald Trump ha delineato con la consueta ruvidezza una svolta drastica nella politica estera, economica e finanziaria degli Usa, buttando per aria regole e intese che riguardano il commercio mondiale e creando conseguentemente forti turbolenze sui mercati finanziari. Non era mai successo, almeno in questi termini e in queste proporzioni, nel secondo dopoguerra. Al punto che la popolarità di Trump è in discesa rapida anche negli Usa. Secondo l’ultima rilevazione di YouGov per The Economist si tratta di un -14% che coinvolge anche settori di voto tradizionalmente repubblicano.
Intanto le Borse segnano pesanti passivi, anche se quelle asiatiche hanno andamenti diversi; Wall Street sale e soprattutto scende a seconda delle voci, vere o false che siano, che si inseguono nell’arco della giornata; anche l’oro ha avuto un andamento altalenante, restando però dominante la tendenza verso la crescita che si è spinta in prossimità del record dei 3.500 dollari l’oncia, segno inequivocabile della corsa verso i beni rifugio, di cui l’oro rappresenta l’eccellenza.
Colpisce in particolare il crollo di oltre il 7% delle azioni di Nvidia, che prevede di perdere 5,5 miliardi di dollari nel trimestre che si chiuderà ad aprile, dopo che l’amministrazione Trump ha vietato la vendita in Cina dei chip H20, perché potrebbero essere usati nei supercomputer cinesi. Una mossa che si inserisce nella più generale battaglia contro lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale nel grande paese asiatico.
Ma se tale trovata fa crollare i titoli del colosso tecnologico statunitense, accade praticamente il contrario sui mercati orientali dal momento che – come ha dichiarato Vey-Sern Ling, della Union Bancaire Privée – “L’innovazione IA in Cina è in pieno boom e il divieto sull’H20 non la rallenterà, anzi potrebbe accelerare l’uso di chip domestici” e, come si è già visto, la Cina può sviluppare modelli IA innovativi neutralizzando le restrizioni trumpiane. Quindi le azioni hardware cinesi hanno tenuto o sono andate in rialzo.
Intanto lo scontro tra Trump e il presidente della Fed, Jerome Powell, si fa sempre più rovente. Al punto che il presidente Usa, interessato solo all’abbassamento dei tassi di interesse favorevole ai movimenti dei capitali, ne invoca apertamente il licenziamento.
Allo stesso tempo cominciano a delinearsi più apertamente e nettamente diverse posizioni all’interno dell’entourage e dell’amministrazione trumpiana. Da una parte si collocano gli ideatori e i falchi della guerra commerciale, Peter Navarro, consigliere per il commercio e il manifatturiero, e Stephen Miran, capo dei consiglieri economici del presidente. Dall’altra i segretari al Tesoro, Scott Bessent, e al Commercio, Howard Lutnick, sostenuti da importanti banchieri, quale Jamie Dimon, capo di JP Morgan. Alle loro pressioni su Trump sembra si debba attribuire la sospensione di novanta giorni sull’innalzamento delle tariffe doganali.
Un simile sconvolgimento non era certamente imprevedibile, anche se sembra assumere persino tratti autolesionisti. Anzi, era messo nel conto da Trump e dai suoi consiglieri economici. In fondo già da diverso tempo Naomi Klein ci parlava della ‘Shock Economy’, e quanto sta avvenendo ne è un esempio. Vi è infatti una ragione di fondo che sta dietro le mosse della nuova Amministrazione Usa e un piano specifico.
Il Wall Street Journal aveva definito “stupida” la guerra commerciale intrapresa da Trump. Ma non è proprio così. Dazi e contro dazi aumentano inevitabilmente i prezzi delle merci in una economia integrata, che tale rimane malgrado il rinculo della globalizzazione; quindi l’inflazione riparte e a farne le spese sono i ceti, le classi meno abbienti e interi popoli del Sud globale, inteso più nel senso geopolitico-economico che non geografico. Il fatidico 1% ne trarrà ulteriore vantaggio e le diseguaglianze, già così enormi, si approfondiranno ulteriormente. “E’ il momento di arricchirsi” ha detto Trump, inconsapevolmente – credo – quasi ricalcando il celebre invito lanciato, in tutt’altra condizione, da Deng Xiaoping. Il progetto di fondo di Trump è esattamente quello non solo di vincere la lotta di classe – cosa già avvenuta, come ci ha detto Warren Buffet – ma di stravincerla, anche a costo di calpestare quella ‘middle class’ e quelle parti di classe operaia delle zone deindustrializzate che pure lo hanno votato.
Questo disegno di fondo, per riuscire, ha bisogno di un piano, per quanto rischioso, che si muova a livello internazionale. Questo gli è stato fornito da un corposo paper elaborato nel novembre del 2024 dal suo principale consigliere economico, Stephen Miran. Il nocciolo della questione è subito esplicitato nelle prime righe del testo: “La radice degli squilibri economici risiede nella persistente sopravvalutazione del dollaro che impedisce l’equilibrio del commercio internazionale, e questa sopravvalutazione è guidata dalla domanda anelastica di attività di riserva. Con la crescita del Pil globale diventa sempre più gravoso per gli Stati Uniti finanziare la fornitura di attività di riserva e l’ombrello della difesa, poiché i settori manifatturiero e commerciale sopportano il peso dei costi”. Il primo step di questo percorso è appunto rappresentato dall’aumento dei dazi. Ma è anche possibile “che il dollaro si rafforzi prima di invertirsi, se ciò avviene”.
Ma nessuna paura, fa capire Miran, perché gli Usa hanno altre frecce al loro arco. Certamente, spiega, “storicamente gli accordi multilaterali sulla valuta sono stati il mezzo principale per attuare cambiamenti internazionali nel valore del dollaro”. Come fu con il Plaza Accord del 1985, dove Usa, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito si sono coordinati per indebolire il dollaro, frenandone poi l’eccessiva discesa con il successivo Louvre Accord del 1987. Ma allora il quadro era decisamente diverso. Ad esempio mancava un protagonista quale la Cina. Quindi, dice Miran, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota: “Innanzitutto c’è il bastone delle tariffe. In secondo luogo c’è la carota dell’ombrello della difesa e il rischio di perderla”.
Ecco quindi che il disegno strategico per riacchiappare la centralità e il dominio del dollaro nel commercio e nei mercati globali, e con esso la diminuzione del deficit commerciale e dell’enorme debito degli Usa, si intreccia indissolubilmente con la costruzione di un sistema di guerra che funzioni da ricatto e minaccia permanenti. E che, per avere efficacia, non può basarsi solo su guerre latenti ma su guerre effettivamente guerreggiate, possibilmente infinite. Da qui la necessità di scavalcare ogni sistema di intermediazione a livello mondiale e di trattare con i singoli Paesi ponendoli di fronte ad un ricatto: o accettate i dazi oppure aumentate le spese per la difesa militare della Nato. Meglio se entrambe le cose.
Resta il problema non semplice di convincere le banche centrali di Cina, Giappone ed Europa a vendere le riserve di dollari in eccesso da esse possedute comprando sui mercati le rispettive valute nazionali. Non solo, ma come evitare che la forte vendita dei titoli Usa (i Treasury) possa provocare una corsa alla liquidazione di attività in dollari, quindi un rialzo dei rendimenti, ottenendo un effetto collaterale del tutto indesiderato, cioè l’innalzamento dei tassi di interesse? C’è un altro coniglio nel capace cappello di Miran: i cosiddetti titoli Matusalem. Ovvero le banche centrali verrebbero incoraggiate a scambiare titoli a breve termine con quelli a lunghissima scadenza, fino a 100 anni, garantendo al contempo alle banche di approvvigionarsi della liquidità a loro necessaria senza essere costrette a vendere i bond in perdita. Praticamente un’estorsione.
La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli Usa e dal maneggio alternato del bastone e della carota. Oggi più che mai l’indipendenza dell’Europa risiede nello spezzare il sistema di guerra, così consustanziale, come abbiamo visto, al disegno economico e politico degli Usa, quindi farsi portatrice di un progetto di pace che in primo luogo si opponga al riarmo, alla cosiddetta difesa comune, ai progetti di un esercito europeo.
Sul piano delle relazioni commerciali la Ue dovrebbe riorientarsi verso i Brics, verso i paesi del ‘Global South’, attuando accordi su basi paritarie. Non basta qualche troppo timida apertura registrata negli ultimi giorni da parte della von der Leyen verso la Cina e il mondo asiatico in generale. Bisognerebbe che le economie basate sull’export traessero dalla negatività della guerra dei dazi l’occasione per un cambiamento di paradigma.
In particolare i paesi che si sono basati soprattutto sulle fortune delle esportazioni, come la Germania, ma anche l’Italia (dove l’export costituisce un terzo della parte più innovativa e propulsiva dell’economia nazionale), si dovrebbero concentrare sullo sviluppo interno, aumentando l’intervento pubblico nei settori capaci di sviluppare l’economia e venendo incontro ai bisogni delle popolazioni, sbarazzandosi dei vincoli del pareggio di bilancio, addirittura infilati in Costituzione. La Germania lo ha fatto, ma finalizzando esplicitamente la spesa al riarmo; l’Italia non muove un dito, neppure dal versante dell’opposizione all’attuale governo, per cancellare la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio nell’articolo 81 della Costituzione attuata nel 2012. Con il Pd consenziente, anzi protagonista.
Purtroppo l’Ue si muove in senso opposto, come dimostra la sconcertante risoluzione in 197 punti e 59 pagine votata a Strasburgo lo scorso 2 aprile, che può essere considerata come un muro che l’Occidente vuole alzare verso l’Oriente e il Sud del mondo dentro un sistema di guerra che riguarda la spesa militare, come la produzione bellica, come gli indirizzi da dare all’insegnamento scolastico, come il più generale orientamento culturale.