L’unione fa la forza. Gli ospiti del centro diurno di Melegnano, alle porte di Milano, hanno bisogno di un aiuto costante. Hanno problemi motori, disabilità anche intellettive e relazionali. Hanno bisogno di una mano insomma, anche per alcune elementari azioni quotidiane. Ed hanno bisogno di una mano le loro famiglie, che in una società sempre più fast, veloce, devono far fronte a quello che Ernesto Calindri, nella storica pubblicità del Cynar, definiva “il logorio della vita moderna”.

A dare una mano ci pensano operatrici e operatori sociosanitari specializzati come Samantha Farina, che lavora nella struttura milanese per garantire agli ospiti un’assistenza adeguata e personalizzata. “Oltre alla quotidiana assistenza, cerchiamo di tenere in allenamento le capacità che hanno e li aiutiamo a svilupparne altre. Ci occupiamo di persone che non riescono a badare a se stesse. Se le famiglie non possono, siamo noi ad andare a prenderli a casa”, spiega Farina.

Visto il contesto, non è difficile capire quanto sia importante una realtà come il centro diurno per la vita quotidiana del territorio. “Restano con noi dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio, da lunedì al venerdì, ogni settimana dell’anno tranne a cavallo di Ferragosto. Periodo in cui sono organizzate delle vacanze comuni”. Il centro è accreditato dalla Regione Lombardia per 21 posti. “Al momento abbiamo 17 ospiti. Accanto a noi c’è poi la comunità alloggio sociosanitaria, dove l’assistenza è 24 ore su 24”. Sono i casi più complessi, quelli impossibili da gestire senza un supporto adeguato.

Samantha Farina ha iniziato questo lavoro 17 anni fa. “E’ stato quasi per caso – racconta – facevo l’università a Ferrara, ero iscritta alla facoltà di filosofia. Sono rimasta incinta e ho avuto una bambina. A quel punto avevo bisogno di un lavoro stabile. Così ho fatto i corsi per diventare prima Asa, ausiliaria socio-assistenziale, e poi Oss, operatrice sociosanitaria. Evidentemente avevo la vocazione, di sicuro questo è un settore che offre sempre possibilità di impiego, così ho iniziato a lavorare e da allora non ho più smesso”.

Un vecchio proverbio dice che salvare una vita significa salvare il mondo intero, questa è la molla che spinge tante ragazze e ragazzi a iniziare una professione che, come dice Samantha “costa impegno e fatica ma ti restituisce tutto quanto con gli interessi. La felicità degli ospiti è un dono impagabile”. Sul sito del centro diurno trova spazio la testimonianza di una giovane ospite, Annalisa: “Cantiamo, ridiamo e ci divertiamo. Andiamo in palestra e in estate a pescare, facciamo le gite. Io al centro mi trovo bene. E tutti mi vogliono bene”. Parole che spiegano come meglio non si potrebbe l’importanza di realtà come queste, capaci di inserire a pieno titolo nella società chi altrimenti da solo non potrebbe nemmeno uscire di casa.“Quando lavori in posti del genere, impari a dare il giusto peso alle cose. Avere un disabile in famiglia è un problema serio, si rischia di finire in un baratro, più di una madre vive situazioni del genere come un lutto. E allora dobbiamo lavorare insieme, e insieme aiutare a sviluppare le capacità di ogni ospite”.

Un lavoro faticoso, anche stressante, sia dal punto di vista psicologico, emotivo, che fisico. Nel centro di Melegnano lavorano undici operatrici e operatori, dalle 9 alle 16, mentre nella comunità sono impegnati in otto, su turni. “Non di rado resto qui anche finito il mio turno. Nel tempo è diventata come una seconda casa. Finisci per affezionarti, diventa doloroso quando qualcuno viene a mancare. Perché l’orologio del tempo per i nostri ospiti è particolarmente inclemente. Quando sono giovani, noi ci occupiamo di persone dai 16 ai 65 anni, è più facile. Quando diventano anziani gli acciacchi e i problemi si moltiplicano”.

In un paese in cui il sistema sociosanitario è sottofinanziato – a riprova è al primo posto nelle preoccupazioni di italiane e italiani – realtà come il centro diurno sono come fiori che spuntano nel deserto. “Noi siamo fra i tanti che non hanno mai smesso di lavorare, neanche durante la pandemia. Ci hanno chiamato ‘angeli’, poi però abbiamo stipendi molto bassi, quasi da fame, che per giunta non prevedono scatti di anzianità. Dopo 17 anni alla fine del mese prendo gli stessi soldi di un mio collega che entra a lavorare oggi”.

Farina è anche una combattiva sindacalista della Funzione pubblica Cgil. “Lottiamo per rendere questo lavoro più appetibile sotto il profilo salariale, dei diritti e delle tutele. Altrimenti un giovane uscito dal triennio di formazione non avrebbe alcun incentivo a entrare nel settore. Per fortuna ci sono i migranti, dai paesi dell’est Europa, dal Sudamerica, che magari hanno ancora qualche difficoltà con la lingua italiana ma che in compenso ci mettono tutto il cuore del mondo per aiutare chi è in difficoltà. Protestiamo, e le famiglie dei nostri ospiti sono le prime ad essere al nostro fianco”. Una solidarietà non di maniera, concreta, che dà senso al concetto di comunità.