Il caso di Nave Diciotti e la costruzione dei centri di detenzione in Albania.

Il 14 agosto 2018 un’imbarcazione con a bordo decine di persone di varie nazionalità (in prevalenza eritrea e somala) proveniente dalla Libia si trovava in una situazione precaria nel Canale di Sicilia. Nei giorni successivi all’avvistamento insorgeva una controversia tra le autorità italiane e maltesi circa la responsabilità per il soccorso dei naufraghi, protrattasi fino a quando il pericolo di naufragio imminente faceva intervenire le navi della Guardia costiera italiana per salvare le 177 persone, che poi venivano trasferite sulla motonave Diciotti.

Dopo tre giorni di stazionamento nei pressi di Lampedusa, dovuto al fatto che perdurava il contrasto circa l’individuazione del Paese responsabile dell’indicazione del Pos (place of safety), il 20 agosto la Diciotti riceveva l’autorizzazione ad entrare nel porto di Catania, ma non a sbarcare i migranti. Il ministro degli Interni Salvini rifiutava il rilascio del Pos (e quindi l’autorizzazione allo sbarco) motivando in base al fatto che attendeva la definizione della trattativa a livello europeo in merito a quali Paesi fossero disponibili ad accogliere i migranti.

In considerazione delle difficili condizioni in cui i migranti versavano, costretti a vivere da diversi giorni su un’imbarcazione inadatta ad accogliere un numero così elevato di ospiti, il 22 agosto, a seguito di esplicita richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Catania, veniva autorizzato lo sbarco dei minori non accompagnati, mentre solo il 25 agosto venivano sbarcati tutti gli altri.

Questi i fatti, da cui è scaturito un procedimento penale a carico dell’allora ministro dell’Interno Salvini, che è stato assolto in primo grado dall’imputazione di sequestro di persona, aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale e della minore età di alcune delle vittime.

Ma la vicenda ha avuto anche un risvolto di tipo civilistico, poiché alcuni dei migranti trattenuti sulla nave hanno rivolto una richiesta di risarcimento danni allo Stato italiano per la privazione della loro libertà, e la richiesta è giunta fino alla Corte di Cassazione che, con la storica sentenza delle sezioni unite civili n. 5992 del 6 marzo 2025, ha stabilito il diritto dell’unico ricorrente che non aveva desistito di fronte alle precedenti pronunce negative ad ottenere il risarcimento, poiché il trattenimento senza titolo è illegittimo e costituisce un’arbitraria limitazione della libertà personale, contrastando con l’articolo 13 della Costituzione e con l’articolo 5 paragrafo 1 lettera F Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Tale privazione, precisa la Suprema corte, provoca un danno per la mortificazione innegabilmente ricollegabile alla privazione della libertà personale.

La sentenza riveste un carattere di estrema importanza sotto molteplici importanti profili giuridici e di principio in quanto: a) ridefinisce e circoscrive i confini dell’atto politico, al fine di impedire che dietro l’insindacabilità si celino condotte abusive o, peggio ancora, eversive dei principi fondamentali dell’ordinamento; b) disegna la corretta prospettiva della vicenda, che non è quella dell’attribuzione del Pos ma della limitazione illegittima della libertà personale; c) evidenzia l’esistenza di un obbligo (anche sussidiario) di intervento e di organizzazione dello sbarco delle persone soccorse in mare nel più breve tempo possibile; d) chiarisce che la nave di soccorso non è di per sé un Pos, e dovrebbe essere sollevata il più velocemente possibile dalla responsabilità di tenere le persone soccorse, perché un porto può definirsi sicuro solo se garantisce, oltre alla sicurezza fisica, anche l’esercizio dei diritti fondamentali e la possibilità di avanzare richiesta di asilo (e questo aspetto è centrale per la tutela dei diritti dei migranti, perché sanziona l’illegittimità della prassi di consegnare le persone soccorse alle autorità tunisine e libiche).

Questa vicenda processuale si concludeva nei giorni in cui, su un altro versante, il governo italiano tentava reiteratamente di forzare le norme interne e dell’Unione europea che salvaguardano l’esercizio del diritto di richiesta di asilo e protezione internazionale, organizzando un (costosissimo) sistema di deportazione in Albania dei migranti provenienti da alcuni Paesi, definiti ‘sicuri’ dal governo stesso.

Al di là dei tecnicismi giuridici che hanno sorretto le motivazioni dei vari giudici che non hanno convalidato i trattenimenti dei migranti nei centri albanesi, quello che emerge dal Protocollo Italia-Albania è la compromissione del funzionamento del sistema europeo comune di asilo, nonché la presenza di numerosi aspetti di criticità alla luce del diritto dell’Unione, e di numerose violazioni degli standard previsti dalle direttive europee in materia di asilo e accoglienza.

Tra i principali punti critici occorre evidenziare: a) qualificazione impropria delle aree come “zone di transito o di frontiera”, basata su un’interpretazione estensiva non supportata dal diritto europeo; b) inefficacia della selezione delle persone “vulnerabili” sulle navi o al porto di Shëngjin, dove l’identificazione sommaria e l’assenza di personale adeguato e competente espongono persone vulnerabili a procedure di frontiera accelerate e trattenute in condizioni di accoglienza non appropriate, violando gli articoli 20 e 21 della Direttiva 2013/33/UE; c) compromissione dell’effettività del diritto di difesa. I colloqui per la richiesta d’asilo e i ricorsi condotti da remoto, con il difensore fisicamente lontano dal proprio assistito, unitamente alla comunicazione tardiva delle udienze e alla privazione dei cellulari, rendono impossibile un effettivo esercizio del diritto di difesa, in violazione dell’articolo 10 paragrafo 4 e dell’articolo 9 paragrafo 6 della Direttiva 2013/33/UE e potenzialmente degli articoli 6 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; d) assenza di effettiva informazione legale ai richiedenti asilo trattenuti. La notifica della decisione negativa prima dell’udienza di convalida del trattenimento e l’impossibilità di ricevere consulenza legale e di contattare un difensore prima dell’audizione con la Commissione territoriale violano gli articoli 6 e 12 della Direttiva 2013/32/UE. La compressione del diritto alla difesa è aggravata dal breve termine di soli 7 giorni per proporre impugnazione, in violazione dell’articolo 47 della Carta; e) La mancata immediata liberazione in caso di mancata convalida del trattenimento, la serialità degli ordini di trattenimento senza riferimenti alla situazione personale, e l’assenza di misure alternative effettivamente accessibili configurano una privazione arbitraria della libertà personale, in contrasto con gli articoli 8-9 della Direttiva 2013/33/UE e l’articolo 6 della Carta. Anche la privazione della libertà durante il trasferimento, in assenza di una base giuridica chiara, è considerata arbitraria e in violazione dell’articolo 13 della Costituzione e dell’articolo 5 Cedu, con conseguenze sull’uniforme interpretazione dell’articolo 6 della Carta.

La questione della legittimità dei centri offshore è oggi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che dovrà chiarire i molti punti oscuri di questa pagina buia della nostra storia.