Giornalista e scrittore, Gad Lerner è uno degli intellettuali italiani che non dimenticano la lezione zapatista del camminare domandando. Nella sua trasmissione televisiva ‘L’infedele’, che per dieci anni all’inizio del secolo ha approfondito una miriade di temi civili, sociali e politici, non ha mai mancato di rappresentare anche le ragioni dell’altro. E’ un piacere starlo a sentire e chiedergli, come farebbe la donna della strada, che cosa sta succedendo in un mondo che sembra impazzito.

Donald Trump vuole espellere i palestinesi di Gaza, mentre in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani. Un gruppo di ebree ed ebrei italiani dicono: ‘No alla pulizia etnica, l’Italia non sia complice’. Tra i firmatari ci sei anche tu, insieme a Anna Foa, Siegmund Ginzberg, Roberto Della Seta, Carlo Ginzburg, Helena Janeczek, Roberto Saviano e Widad Tamimi. Vi hanno presi a male parole, minacciati, anche dai vertici della comunità ebraica di Roma, perché?

“Quando si è in guerra l’allineamento passivo all’interno del proprio schieramento è considerato un obbligo. Qualunque voce riflessiva o di critica viene percepita come un tradimento. Ed è una delle forme di imbarbarimento provocate dai conflitti. Questo avviene anche dalla parte palestinese, dove le tante voci critiche, quelle che ad esempio vedono nell’azione criminale perpetrata il 7 ottobre da Hamas e Jihad islamica una sciagura, non certo l’inizio di una riscossa o la data di una rivoluzione, faticano ad esprimersi. I motivi sono evidenti, il loro popolo viene colpito pesantemente ogni giorno e lì esprimersi in pubblico è ancora più complicato che per noi. Ma questa idea della disciplina fa parte della logica di guerra, e rompere la disciplina provoca reazioni, in questo caso davvero isteriche e sopra le righe”.

Voi siete stati insultati, tante altre e altri sono stati arrestati.

“Nei giorni scorsi alla Trump Tower, a New York, sono stati arrestati 96 ebrei statunitensi che indossavano la maglietta ‘Not in my name’. E’ un movimento internazionale che per fortuna esiste nel mondo ebraico. E io dico anche per fortuna di Israele, perché una nazione che compattamente va a cacciarsi nel vicolo cieco di questa guerra, della negazione anche solo dell’esistenza del popolo palestinese, che si isola sempre più nel mondo, che alimenta un odio, un’ostilità, e che dissotterra vecchie argomentazioni antisemite contro gli ebrei, è un Israele destinato alla sconfitta e probabilmente anche alla scomparsa. Di sicuro al suo snaturamento. Già oggi la sua essenza democratica è messa in discussione. La nostra protesta è anche un tentativo, se vuoi un po’ disperato, di immaginare la possibilità che Israele non si trasformi definitivamente in una etnocrazia, ma mantenga lo spazio per una convivenza tra i due popoli che abitano in quella terra e che numericamente oggi si equivalgono. Sono circa sette milioni gli ebrei israeliani, e sono circa sette milioni gli arabi palestinesi, che non hanno nessun altro posto in cui andare se non in quel fazzoletto di terra”.

La Commissione europea e l’Europarlamento approvano il piano Rearm, che sta provocando molte polemiche nel nostro paese. Ma l’Europa non doveva essere di pace, come auspicavano statisti come De Gasperi e Adenauer dopo la terrificante seconda guerra mondiale?

“Per essere di pace l’Europa deve anche avere un suo corpo di difesa militare. Come avevamo già visto prefigurarsi nell’inglorioso agosto della fuga da Kabul, gli Usa hanno manifestato in molte altre occasioni la propria inefficacia nel ‘reggere’ i conflitti che aprono, e la loro incapacità a essere protagonisti di un mondo multipolare, nel quale vanno armonizzate le diverse posizioni. E l’Unione europea non può essere semplicemente un’articolazione, una protesi degli Stati Uniti. La fine della Nato non può lasciare un vuoto, perché i vuoti sono pericolosissimi nelle relazioni internazionali. E quindi un corpo di difesa europeo senz’altro è un tema all’ordine del giorno. Fino ad ora solo a parole, ma con Trump e Putin che si riuniscono da soli per spartirsi il mondo diventa un fatto. Il problema è come: se il primo passo sia quello di lanciare da parte della Commissione europea un ‘liberi tutti’ per l’acquisto di armi dovunque e comunque, tra l’altro in larga misura dagli americani, dopo uno stanziamento appena fatto, oppure prima si dovrebbe portare a termine un’integrazione politica fra i diversi paesi della Ue. Se i singoli Stati avessero iniziato da una vera cessione di sovranità all’Unione europea, ne sarebbe seguita l’integrazione delle loro forze armate. Invece mi sembra che siano partiti con il piede sbagliato”.

Pacifista significa ormai anima bella nella migliore delle ipotesi, quinta colonna dello zar Putin nella peggiore. Non ti sembra pericolosa questa dinamica che cancella concetti come negoziato e diplomazia per evitare i conflitti armati prima del nascere?

“Non so se Putin sia uno zar. Poco mi interessa usare le definizioni del passato sia quando si riferiscono a Hitler, sia quando si riferiscono allo zar. Ma credo che nel movimento critico del quale sento di fare parte, del movimento pacifista odierno, ci sia una sottovalutazione della natura della Federazione russa e della sua classe dirigente. Abbiamo riflettuto moltissimo su processi degenerativi della democrazia statunitense, su Trump e Musk, ma Putin è al potere da 25 anni, un quarto di secolo, più del regime di Mussolini. Ha provocato diverse guerre, ha una concezione della forza come rivalsa rispetto alle condizioni in cui, dopo la caduta del comunismo e dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, si è ritrovato lo stato russo. E ha un’ideologia che, non a caso, piace molto alle destre nazionaliste di tutto il mondo. Secondo me c’è stata una sottovalutazione. Se Trump concederà a Putin di allargare la sua sfera di influenza sull’Ucraina, significherà di fatto la fine di un’indipendenza recente, del 1991. Io non scherzo con la logica di Putin, e proprio perché lo prendo sul serio credo che si debba trattare con lui. Il primo passo per trattare è presentarsi al tavolo come una federazione degli Stati europei che ha una sua forza politica”.

Nella sua stanza al Policlinico Gemelli, Papa Francesco tiene duro e dà una speranza a chi contesta radicalmente la terza guerra mondiale a pezzi, come da lucida definizione di Jorge Bergoglio nei primi mesi del suo magistrale pontificato. E’ l’ultimo dei pacifisti?

“Sono molte le voci, sparse, dei cosiddetti sognatori, degli utopisti. Ma queste voci sono le più realistiche. E’ il paradosso di questi momenti che precedono, ahimè, i conflitti mondiali. Noi stiamo vivendo un clima da anteguerra, anche le divisioni nel voto delle sinistre tra chi si pronuncia in favore del riarmo e chi invece tira il freno, ricordano sinistramente il 1914 del secolo scorso. Tipico di questi momenti il fatto che si abbandoni molto rapidamente il terreno dei valori nei quali si è creduto, penso all’Internazionale che si scioglie alla vigilia della prima guerra mondiale perché bisogna stare con il proprio paese, sempre e comunque. Oggi io traduco lo spirito internazionalista in europeismo. Certo, il mondo è ben più grande, ed è con questa realtà multipolare che dovremmo fare i conti. Ma cominciare ad avere una visione di cittadinanza europea sarebbe determinante. Invece è visto ancora come un obiettivo velleitario. Il tempo ci darà ragione, speriamo non ci dia ragione troppo tardi”.

Cosa possono fare le donne e gli uomini di buona volontà di fronte a quello che appare come un impazzimento generale, ma che in realtà nasconde la consueta spinta delle lobby delle armi?

“Parlando di economia di guerra, si può arrivare a una vera e propria riconversione delle nostre produzioni industriali. Il settore dell’automotive in Italia è in crisi, ci sono stabilimenti che vanno svuotandosi? Se Leonardo concludesse l’accordo per produrre carri armati con il suo partner tedesco, qualche fabbrica per scongiurare la crisi occupazionale potrebbe mettersi a produrre proprio carri armati. E così i nostri risparmiatori che hanno comprato azioni di Leonardo, o altre aziende delle armi, farebbero buoni guadagni. Quindi è una logica inerziale che può riguardare i comportamenti e le esperienze di vita di molte persone. E’ qui che ci vuole la capacità di discernimento, di fare scelte che magari nell’immediato risultano minoritarie, impopolari, ma sono le uniche che ci lasciano immaginare un mondo alternativo, un mondo diverso rispetto alle logiche di guerra”.

Come fecero gli studenti di Berkeley all’alba della guerra del Vietnam, che protestavano ricordando Gandhi e gridando ‘occhio per occhio e il mondo sarà cieco’?

“Proprio così”.