Care compagne e cari compagni,
innanzitutto, volevo ringraziarvi. Gli altri ringraziamenti li farò alla fine.
Voglio ringraziare tutti i presenti per aver scelto, in una giornata infrasettimanale, di essere qua tutte e tutti insieme liberamente e senza obblighi. Io credo che sia una scelta importante. È una scelta che dà corpo a quella dimensione collettiva che spesso noi evochiamo nelle discussioni e che però nella Cgil di oggi, e non mi sto riferendo alla nostra area, a volte non è presente.
Provo a iniziare così, con una citazione di Gramsci, il contributo a questa discussione.
Ed è la citazione che ci parla del vecchio mondo che sta morendo, di quello nuovo che stenta a comparire, che tarda a comparire e, in questo chiaroscuro, ci consegna i mostri.
Parto da questa affermazione perché sia la relazione di Giacinto che tutti gli interventi ci hanno rappresentato, dal punto di vista dell’analisi del quadro internazionale e nazionale, una mostruosità che è la mostruosità della guerra, che è la mostruosità dello sfruttamento delle persone, della loro condizione, che è la mostruosità che fa diventare ordinario ciò che ordinario non è stato, sicuramente non nella storia novecentesca, quella che ha seguito la Seconda guerra mondiale.
Però io credo che sia anche utile ricordarsi che c’è una dimensione all’interno della quale si determinano anche condizioni di consenso o di indifferenza rispetto a ciò che sta accadendo e penso che sia utile aver presente questo elemento di ciò che ci sta attorno, di ciò che caratterizza questa fase.
Perché se è vero, come è vero, e avete fatto bene a ricordarlo nei vostri interventi, che ci sono azioni collettive, lotte, lotte sociali, lotte per i diritti, è altrettanto vero che ci sono tante persone silenziose e che c’è un abbandono da parte di molte persone di qualunque forma di partecipazione.
Su questo mi interrogo e continuo ad interrogarvi. C’è una dimensione sul piano culturale, sulla cultura della democrazia che a mio avviso non va sottovalutata, perché sennò sì, commetteremmo anche noi l’errore dell’autoreferenzialità, dell’accontentarci di noi stessi, di ciò che siamo bravi a dirci e di ciò che siamo bravi a rappresentarci.
Corriamo anche noi il rischio di costruire una contro narrazione che va bene solo per noi.
E non ce lo possiamo permettere. Diceva bene Giacinto, in uno dei passaggi della sua relazione, quando ci ricordava per i fatti internazionali che noi siamo passati da una fase dove ragionavamo dell’economia di guerra ad una fase dove si ragiona dell’economia della guerra.
Penso sia utile ricordare questa cosa, che non è un semplice gioco di parole, ma ci rappresenta l’autentico cambio di passo rispetto ad una concezione del mondo, dei rapporti economici e sociali, e della guerra come strumento per sostenere l’economia di una parte del mondo a danno dell’altra parte del mondo.
E quell’economia ha bisogno di armi, ha bisogno di morte e ha bisogno di fare in modo che ci siano gli ultimi della fila. Perché guardate, le elezioni non le ha vinte Trump, le elezioni le ha vinte Musk. E questo quadro cosa ci rappresenta?
Che noi viviamo in una fase storica dove i ricchi vincono e i poveri perdono.
Noi viviamo in una fase storica dove diventa normale deportare le persone.
Noi viviamo in una fase storica dove la scorrettezza, e guardate – lo ricordava anche prima nel suo intervento Emanuele Barosselli – il teatrino Trump, Zelensky e Vance davanti alle alle telecamere. E anch’io come lui, non ho nessuna simpatia per Zelensky. Non ho vergogna a dirlo, e lo dico.
Quella dimensione, anche della scorrettezza istituzionale, se vogliamo assumere quello come uno degli elementi sui quali riflettere, ci rappresenta la prova plastica di ciò che diventa ordinario, perché è ordinario pensare che invece di fermare il genocidio si possa fare un bel villaggio turistico a Gaza! Anche questo diventa ordinario.
Lo dicevo prima, lo ripeto, deportare le persone con la telecamera, in primo piano; perché diventa ordinario ammettere tranquillamente e pacificamente, senza nessuna forma di pudore, che quello che conta sono gli affari e che in nome degli affari vale tutto, anche la vita e la morte delle persone. Ecco tutto ciò non ha nulla a che vedere con quello che ha contraddistinto, anche con le drammatiche contraddizioni, tutta la fase del secondo ‘900, quella dopo la Seconda guerra mondiale. Questo ci deve interrogare. Ci deve interrogare, ovviamente, non dal punto di vista della presa d’atto. Ci deve interrogare, ovviamente, non dal punto di vista dell’essere spettatori passivi di quello che sta accadendo. Ci deve interrogare, però, su come noi possiamo, attraverso l’azione collettiva, attraverso l’intelligenza collettiva e l’azione collettiva conseguente, mettere in campo un’azione che porti ad una prospettiva differente.
Dobbiamo ragionare del futuro perché, attenzione, se non lo utilizziamo noi, questo piano di discussione lo utilizzano altri, che sono gli altri che portano, anche nei programmi di Pcto nelle scuole, i ragazzini a farsi fare lezione dalle forze dell’ordine. Perché quella è sicurezza: gli altri, in barba al diritto alla cura parlano di privatizzazione di sistema sanitario. E questo accade in Lombardia come nel Lazio, solo per fare alcuni esempi.
E sono gli altri che sostanzialmente ci dicono che di lavoro si può anche morire, perché diventa ordinario consegnare alla cronaca che sul lavoro mediamente ogni giorno muoiono tre persone.
Che non sono soltanto le cronache degli eventi che tanto fanno discutere i mass media, ma che è la somma di quello che ordinariamente accade.
E sono anche quelli che, parlando di come si lavora e del come si sta nel lavoro, dicono che si può essere sfruttati perché è giusto che sia così.
E sono quelli che ci dicono che se vuoi protestare c’è il Ddl sicurezza, perché tu non puoi aver diritto a protestare.
E allora, al di là della Costituzione nella cui difesa siamo impegnati, è evidente che si è determinato una costituzione materiale, un sistema di regole e di comportamenti anche non codificati, che ci sta portando dritti dritti verso nuove forme di fascismo. Perché il fascismo costruisce il suo consenso – credo che questo dobbiamo averlo sempre ben presente – sulla paura della diversità, e quando ti fa vedere qualcuno vicino a te che è diverso perché magari è più povero, perché magari arriva da un altro Paese, perché magari ha un colore della pelle diversa dalla tua o perché magari ha anche, come si può dire, uno stile di vita diverso dal tuo; ecco, quello è il diverso da cui ti devi guardare.
Sembra quasi una metafora del tempo che fu, la macchietta di Albanese che si era inventato il ministro della paura. Ve lo ricordate Antonio Albanese? Ci rappresentava col sorriso amaro sulle labbra, come l’evocazione della paura diventava lo strumento da parte della politica per costruire il consenso attorno alle sue opinioni.
Ma cosa c’è di così diverso rispetto a quello che stiamo vedendo?
Cosa c’è di così diverso rispetto alla mostruosità, a quei mostri che sono generati tra il vecchio mondo e quello che tarda a comparire?
E allora dobbiamo ragionare del futuro. Dobbiamo ragionare sul mondo che, dal nostro punto di vista, dovrebbe comparire. E ragionare di questa prospettiva significa ancora una volta fare uno sforzo per mettere insieme, per costruire connessioni, per dare la possibilità alle persone di immaginarsi una prospettiva differente.
E guardate – lo so che non la pensiamo tutti così, anche su questo faremo una discussione – ma l’evocazione della piazza del 15 marzo come risposta al teatrino Trump-Zelensky, non è la prospettiva di futuro che ci fa parlare di pace, di libertà e di giustizia sociale. Avremo modo di parlarne, vedremo anche cosa fa la nostra organizzazione dal punto di vista dell’elegante utilizzo dei termini di cui si sente cronaca in qualche cuffia. Però, attenzione, così non si parla alla gente comune e nessuno mette in discussione che una critica a quella piazza significa chiamarsi fuori dalla dimensione europea. Non è questo l’obiettivo. Ma se si vuol dar corpo ad una visione dell’Europa come modello sociale europeo, come Europa dei diritti e come Europa di chi lavora, probabilmente bisogna pensare a quali altre occasioni di discussione costruire.
Per evitare che ci sia l’Europa fatta da chi oggi l’Europa la governa. Perché la Francia parla di mandare le truppe in Ucraina. Non sta parlando di pace. Perché la Von der Leyen parla di aumentare le spese militari, non si sta parlando di pace e queste scelte vengono fatte a discapito della spesa sociale.
Non è che, tra virgolette, ci si inventa nuove risorse. Perché?
Il riordino, diciamo alle volte, della fiscalità che non produce risorse per i contratti, di chi vive di risorse pubbliche, dico, sono fatti per aumentare la spesa militare. E ancora una volta la mostruosità della morte, perché sulla morte qualcuno ci campa. Ora abbiamo la necessità di provare a ragionare di una prospettiva e di un futuro differente, provando a mettere insieme un punto di vista, quello nostro.
All’interno di un dibattito più ricco, più complesso se volete anche più difficile alle volte, quello di tutta la nostra organizzazione e di come questa capacità può diventare l’espressione di un punto di vista. Il punto di vista del lavoro nella società.
A me il nostro nome piace, lo ammetto. Il punto di vista di Lavoro Società, ovviamente, deve parlare un linguaggio differente.
Deve parlare un linguaggio che innanzitutto si rivolge alle persone e che parla della loro condizione sociale. Ha ragione Tartaglia quando dice “bene parlare della dimensione internazionale, bene parlare delle grandi questioni, ma non dimentichiamoci la condizione sociale delle persone”.
Io credo che quello sia un elemento che ha accompagnato tutta la nostra discussione, a partire dalla relazione di Giacinto, ma quella utile sottolineatura ci serve a capire, a immaginarci come soggetti che nel rapporto con le persone provano insieme a loro, non a indicare un modello al quale conformare la realtà, ma a costruire una prospettiva di trasformazione della realtà.
Ed è su quel piano e poi sul piano collettivo che dobbiamo immaginare una prospettiva per la rappresentanza sociale del lavoro.
E io dico anche per un mondo costruito su rapporti economici, sociali differenti da quelli ai quali i Trump, ma non solo i Trump, ci vogliono condannare.
E allora ragionare delle condizioni delle persone significa provare a immaginarsi come l’organizzazione di chi lavora, delle donne, degli uomini che lavorano, e di come quella dimensione collettiva serve a dare una prospettiva diversa, e di come proviamo a immaginare un’economia della Pace come piano alternativo e diverso per orientare investimenti e per parlare di come si possono tutelare meglio le persone.
Perché anche noi parliamo della sicurezza, ma parliamo della sicurezza di poter lavorare.
Parliamo della sicurezza di poter aver diritto ad una casa.
Parliamo della sicurezza di potersi curare.
Parliamo della sicurezza di poter studiare e di poter far studiare i nostri figli.
Parliamo della sicurezza di non essere condannati a far arricchire qualcun altro.
Parliamo della sicurezza di poter tornare a casa la sera dal lavoro senza essersi fatti male o peggio essere morti.
Parliamo della sicurezza di chi scappa dalle guerre e dalla fame e ha diritto di potersi dare una vita migliore per sé e per i propri cari.
Parliamo della sicurezza di poter far sentire liberamente la nostra voce.
Però, capite come le stesse parole assumono un significato diverso, e capite come attraverso un significato diverso noi possiamo essere il soggetto che dà una prospettiva differente alle persone che noi organizziamo, e capite come rimettere insieme l’agire collettivo con la contrattazione diventa lo strumento per offrire condizioni diverse alle persone che vogliamo rappresentare.
E capite come, all’interno di questa idea di rappresentanza di natura generale, noi parliamo della democrazia. Sì, perché lottare significa democrazia.
E allora è proprio su quel piano, sul piano della democrazia, sul piano della democrazia progressiva, non quella liberale, non quella della “X” sulla scheda elettorale, ma quella che ci parla delle forme di partecipazione, anche attraverso i corpi sociali intermedi, anche attraverso le organizzazioni sindacali, anche attraverso l’azione collettiva, che si costruisce una possibilità diversa per le persone, e quindi l’elemento di centralità delle lavoratrici, dei lavoratori, delle persone in quanto tali.
Diventa un elemento che ci fa parlare della cittadinanza non come semplice approccio normativo o referendario, ma come idea e concezione della vita e della convivenza civile delle persone, perché stiamo parlando del grado di civiltà.
Guardate, noi abbiamo fatto delle riflessioni critiche sui referendum. Credo che questo non sia un mistero. L’abbiamo fatto anche, come si può dire, partendo da un’analisi dei rapporti di forza. Non abbiamo un pregiudizio rispetto agli strumenti. Uno strumento è uno strumento. Ciò che fa la differenza è immaginarsi l’efficacia dell’utilizzo di uno strumento, non lo strumento in quanto tale.
Come si può dire, abbiamo dato un contributo alla discussione. Abbiamo poi scelto, anche insieme ad altri soggetti che come noi han dato un contributo critico, quindi assieme alla Cgil tutta, di non chiamarci fuori da quel piano e da quella scelta.
Oggi i referendum ci sono.
Da questo punto di vista è del tutto evidente che noi dobbiamo avere un elemento di consapevolezza, non può esistere una discussione che noi facciamo su ciò che è stato.
Può esistere una discussione su ciò che noi dobbiamo fare per affrontare una sfida così alta, così importante e tanto importante quanto pericolosa.
Perché, guardate, dall’esito del referendum non si discute se la Cgil ci sarà o no, dall’esito del referendum si discuterà se la Cgil, il più grande soggetto di rappresentanza sociale del lavoro nel nostro Paese, può esercitare o meno un’azione di condizionamento delle scelte politiche generali.
E allora, per questa ragione, noi non possiamo chiamarci fuori, per questa ragione dobbiamo tenere insieme la dimensione dei quattro referendum sociali con il referendum sulla cittadinanza, perché anche quella dimensione, quel tipo di battaglia, deve essere una battaglia di rappresentanza che noi dobbiamo costruire oggi, con la propaganda elettorale, per rappresentare il giorno dopo.
Poi, se raggiungiamo il quorum, è evidente che saremo tutti felici e contenti.
Ma se non dovessimo raggiungere il quorum è evidente che noi dovremmo assumere la responsabilità di rappresentare quel blocco sociale che voterà Sì ai referendum.
Non è soltanto questione interna al gruppo dirigente della Cgil, la vicenda del referendum.
Io credo che noi dobbiamo avere questo elemento di consapevolezza.
Poi il gruppo dirigente farà le sue discussioni.
E quando parlo del gruppo dirigente, parlo anche di quel gruppo dirigente consentitemelo – Denise Amerini prima parlava di errori – io la voglio definire un’occasione persa, di quel gruppo dirigente che, come si può dire, nella smania, alle volte, anche di autoreferenzialità, perde occasioni. Noi la Segreteria nazionale Cgil l’abbiamo invitata a questa discussione. Ha scelto liberamente – sia chiaro, anche per i molteplici impegni – di non partecipare. È un’occasione persa, perché io da dirigente di questa organizzazione sono interessato a sapere cosa c’è nel mio ventre, a dare un contributo anche a quella discussione e a fare in modo che su quel terreno si costruiscano convergenze e connessioni. Ma se loro hanno perso un’occasione, noi non la perderemo per far sentire la nostra voce.
Non la perderemo, non soltanto perché oggi siamo qua, in tanti in questa sala, non la perderemo perché continueremo a fare quello che stiamo facendo e cercheremo semplicemente di farlo meglio. Voglio dirlo così, in maniera semplice: farlo meglio.
Che cosa significa dal punto di vista di un’area organizzata come la nostra?
Significa innanzitutto individuare un terreno, quello della sfida nel dibattito interno che ci viene offerto, che prescinde – estremizzo per rendere il concetto dalla dimensione dei contenuti – che ci fa misurare sul fatto che la Cgil abbia o meno gli anticorpi rispetto a quello che sta accadendo fuori da essa stessa. Se fuori c’è una deriva autoritaria, un’organizzazione che si definisce diversa da quella deriva è in grado di non essere autoritaria. Al suo interno, i fatti di cui abbiamo dato abbondante cronaca prima non ci consegnano un quadro così sereno.
Faccio questa sottolineatura perché quello è un terreno – e faceva bene Luca Stanzione nel suo contributo di stamattina anche a fare questo tipo di sottolineatura – quello indubbiamente è un terreno sul quale si vanno a registrare convergenze, perché non ci può essere condivisione di progetto politico se non c’è rispetto, se non c’è riconoscimento dei pluralismi.
Non ci chiamiamo fuori dal nostro percorso storico, sia chiaro, semplicemente ci dobbiamo attrezzare ad un cambio di passo rispetto ai rapporti interni. Quello è un tema. La vicenda di Andrea Gambillara, la vicenda dell’Umbria, la vicenda della Toscana, sono vicende con le quali ci dobbiamo misurare.
Poi la nostra ricetta è la stessa, sia chiaro, non stiamo dicendo che cambiamo collocazione o quant’altro. Ma vogliamo esserci e vogliamo esserci con dignità in quelle discussioni, ci vogliamo essere alla pari. E quindi il terreno della democrazia interna diventa la cifra di un pezzo della discussione che riguarderà il come stiamo assieme all’interno della Cgil.
Quindi, poi faremo il convegno sulla democrazia.
L’altro elemento, la dimensione internazionale, la citavo prima, voglio recuperarla adesso.
In relazione, soprattutto, alla questione della dimensione europea e del modello europeo. E’ un terreno che noi non possiamo pensare di derubricare dalla nostra discussione, o di limitare. Sarebbe parimenti un errore come il giudizio su una manifestazione che qualcun altro, non noi, ha invocato e sulla quale abbiamo già abbondantemente detto.
Però, misurarsi in un dibattito tra di noi rispetto al modello europeo e su come si può far vivere un punto di vista sul modello europeo, credo possa essere cosa utile.
L’altra questione, qualche intervento l’ha toccata. Parlare della condizione materiale delle persone significa anche anche interrogarsi sulla rappresentanza di quelle stesse persone attraverso l’azione collettiva e la contrattazione. Riuscire a dare delle risposte. La contrattazione, consentitemelo, anche quella è un terreno sul quale dobbiamo misurarci, perché sennò corriamo il rischio di essere sempre confinati e perimetrati. Questo vale per i lavoratori attivi, come per i pensionati, come ci veniva ricordato. Questo è la cifra di quello che noi siamo più o meno capaci di fare.
La dico così.
Se abbiamo la voglia di farle alcune cose. Perché, guardate, quando diventa un valore in sé rinnovare un contratto senza un’ora di sciopero, e a me è capitato di sentire questa musica… Dico, probabilmente c’è qualche cosa, se quello è un valore in sé, c’è qualcosa che non funziona.
La bontà di un rinnovo contrattuale sta nei contenuti di quel rinnovo, l’azione collettiva di sostegno per quel risultato contrattuale è lo strumento che si può agire o no a seconda delle condizioni date, per offrire una prospettiva con la contrattazione di un tipo piuttosto che di un altro.
E quindi, come noi teniamo insieme la dimensione delle lotte con la dimensione della contrattazione è un altro terreno che non diventa evocazione astratta, diventa ancora una volta la capacità di mettere assieme, di costruire convergenze e di avere un rapporto democratico con le persone che noi rappresentiamo.
E quindi la centralità dei luoghi di lavoro e la centralità del ruolo dei delegati non sono, come si può dire, questioni di secondaria importanza. E lo dico perché l’importanza del ruolo delle delegate e dei delegati e l’importanza di un’esperienza collettiva come la nostra, nella sua base storica ci insegnano che una possibilità diversa c’è.
Guardate, c’è un merito, credo, che vada riconosciuto alle esperienze organizzate della sinistra sindacale: è che attraverso quella dimensione collettiva noi siamo stati in grado di dare voce a delegate, a delegati che diversamente non l’avrebbero avuta all’interno di un’organizzazione come la nostra. Possiamo dire che questo è un terreno di lotta politica ancora interno e quindi ancora una volta il tema della sinistra sindacale, non utile o indispensabile perché lo definiamo noi.
Ma utile perché sta nei rapporti di massa che noi siamo in grado di costruire. É utile perché fa parlare di futuro. É utile perché partendo dalla centralità della condizione delle persone e mettendole insieme all’azione collettiva, ci dice anche quali sono gli strumenti per conquistare un futuro migliore rispetto a quello esistente.
E concludendo, prima dei ringraziamenti.
Io penso che dobbiamo fare anche un’altra riflessione, perché pensiamo che altri in tutti i campi, diciamo, dove ci misuriamo nelle relazioni tra forze organizzate, e penso alla politica, giusto per fare un esempio, sbaglino nel dividersi e sbaglino nel dividersi a sinistra.
Una riflessione sulla non autosufficienza nostra dobbiamo farla. Che non significa rinunciare a ciò che siamo, sia chiaro, significa proporsi come elemento di centralità per la costruzione di una ricomposizione delle sinistre sindacali, perché dal punto di vista della sinistra sindacale in questa organizzazione non ci siamo solo noi.
E non sto parlando della burocrazia, sia chiaro, ma sto parlando di quelle decine e centinaia di compagne e compagni che da soli sui territori ci sono o che magari hanno delle esperienze molto localizzate e che non hanno elementi, diciamo così, di coordinamento, che vada oltre le loro esperienze. Perché organizzarci noi meglio, organizzarci noi e non accontentarci di noi, diventa il binomio di una prospettiva.
Una prospettiva che metteremo a disposizione di questa organizzazione. Una prospettiva che metteremo a disposizione, anche, se volete, di un dibattito culturale a sinistra ampiamente, ampiamente intesa. E una prospettiva che fa dell’elemento della capacità dello stare assieme la chiave di volta non per cancellare le differenze ma per offrire delle sintesi, e che attraverso l’individuazione delle sintesi ha la capacità, come si può dire, di candidarsi a essere forza che governa questa organizzazione, se parliamo della Cgil, e forza che condiziona le sorti del Paese, se parliamo della nazione.
Cari compagni e care compagne,
la parte, diciamo così, più politica che più di una conclusione, vuole essere l’avvio di un percorso di riflessione, io la terminerei qui.
Però non vorrei terminare senza dei ringraziamenti.
Prima, ringraziamo tutti per la presenza.
All’interno di tutti io credo che si debba un ringraziamento a Giacinto per il lavoro che ha svolto in tutti questi anni.
All’interno di questi tutti io voglio fare un ringraziamento a chi garantisce, Riccardo Chiari e Leopoldo Tartaglia, ma non solo loro, che cito per sintesi, anche quella pubblicazione, che è una pubblicazione di qualità, che è “Sinistra sindacale”.
All’interno di questi tutti non mettiamo fuori dal ringraziamento Andrea Montagni, a qualcuno piacerebbe, anche se magari ci frequentiamo un po’ meno rispetto ai nomi che ho citato prima. Io credo che un ringraziamento ad Andrea vada dato perché comunque nelle nostre discussioni ha sempre portato un contributo prezioso, prezioso per la sua esperienza ma anche per la sua capacità, lo dico così scherzosamente, di non essere invadente e questo è un pregio.
All’interno di questi tutti io vorrei ringraziare Mariapia Mazzasette, che ha avuto il ruolo più ingrato della giornata, e ovviamente i compagni che poi fattivamente hanno dato una mano allo svolgimento pratico, perché le bandiere, le cose, la connessione. E mi riferisco in particolar modo a Ivan Lembo, senza dimenticare però anche Angela, che ci ha dato una mano importante, e anche ad Alessandro, e, all’interno di questi tutti, e vi prometto che ho veramente finito, anche a quanti, pur non essendo nella nostra area, sono stati interessati a essere qui insieme a noi per ascoltarci. E credo che questa sia un’occasione non mancata. Grazie care compagne e cari compagni!
Penso sia giusto salutarsi per augurare il buon rientro a chi arriva da lontano, perché tra di noi ci sono anche compagne e compagni che arrivano da molto lontano.
Penso che sia giusto salutarsi dicendo “viva la Cgil, al lavoro, alla lotta e al voto!”
Grazie.