Un altro 8 Marzo si avvicina, con i rituali e la retorica che conosciamo fin troppo bene, in un Paese che a stento migliora sul piano della condizione delle donne. Il governo rivendica l’aumento dell’occupazione femminile e lancia l’allerta sul calo demografico. Il tutto mentre Trump chiude le divisioni pubbliche che si occupano di lotta alle discriminazioni, e le multinazionali chiudono gli uffici di diversity management.

Nello studio che le ha conferito il Nobel, Claudia Goldin spiega che il ‘lavoro avido’, quello degli straordinari e della reperibilità h24, premia gli uomini anche economicamente, aumentando il gender pay gap e l’accesso alle carriere. L’economista rileva che il lavoro di cura è ancora prevalentemente a carico delle donne, fattore di grave discriminazione nell’accesso, permanenza e carriera.

L’occupazione in Italia aumenta più per le donne che per gli uomini (dati Istat: a maggio ‘24, le occupate erano passate dal 52,5% al 53,5%, i colleghi dal 70,4% al 70,9%), ma il divario occupazionale è tale che presupporrebbe ben altri ritmi di crescita per la componente femminile. Inoltre, il differenziale del 17% è il dato più forte nel gap occupazionale con gli altri Paesi Ue (-13%). Secondo il Global Gender Gap Report 2023 del World Economic Forum, l’Italia è al 93° posto su 146 Paesi per la partecipazione femminile al mercato del lavoro, e all’80° posto per la parità salariale a parità di mansione.

Se guardiamo alle fasce di età, nel 2023: il 29% tra i 20 e 24 anni; il 55% tra i 25 e 29; il 64% tra i 30 e i 34. Rimane poi oltre il 66% fino ai 49 anni, per poi scendere (63,8% nella fascia 50-54 e 57% tra 55 e 59 anni) e crollare al 35,4% tra i 60-64 anni e al 10,8% tra i 65 e i 69 anni. Per gli uomini, invece, si comincia a 25-29 anni con il 70% per poi salire stabilmente oltre l’80% sino ai 60 anni (Rapporto Inapp gennaio ‘25).

Secondo il rapporto Istat 2023, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è “molto legata ai carichi familiari, alla disponibilità di servizi per l’infanzia e la cura, ai modelli culturali”. Nella fascia d’età 25-49 anni, nel 2022 il tasso di occupazione è l’80,7% per le donne che vivono sole, il 74,9% per quelle che vivono in coppia senza figli, e il 58,3% per le madri. Per le laureate, il tasso di occupazione è superiore al 70% indipendentemente dal ruolo svolto in famiglia.

Inoltre, le misure per incrementare il lavoro delle donne si sono dimostrate inefficaci. Gli sgravi e le sotto contribuzioni per le assunzioni femminili stanno aggravando il fenomeno, invece che invertirne la tendenza. In particolare, la quota di part-time in ingresso nelle assunzioni agevolate è maggiore che nelle assunzioni non agevolate (donne 59,7% contro 46,7%; uomini 32,7% contro 25%); la quota di contratti a termine a tempo parziale riguarda le donne per il 77% nei contratti agevolati contro il 60,4% nei non agevolati (uomini 39,3% contro il 30,1%).

Hanno poi remunerazioni più basse. Sul divario influiscono una serie di fattori: le donne svolgono mansioni meno remunerate, contratti precari e hanno carriere discontinue, soprattutto dopo la maternità; per via dei carichi familiari, hanno meno accesso a bonus e incentivi sulla produttività; solo in poche arrivano a ruoli apicali.

Secondo l’Istat, il divario retributivo si attesterebbe al 5%, ma se consideriamo la parte variabile della retribuzione, stimato al 25% nel privato e al 17% nel pubblico. Il divario sale progressivamente con il percorso di carriera (43% nei livelli più alti). Non solo, il gap aumenta con l’aumentare del livello di istruzione: dal 5,4% per le scuole professionali, al 10,4% dei non laureati, al 30,4% tra i laureati, al 46,7% tra chi ha specializzazioni di secondo livello.

La segregazione orizzontale, ovvero la reclusione nelle mansioni meno retribuite. Il caso più eclatante è quello del lavoro domestico che in Italia occupa 894mila dipendenti, di cui donne 773mila, con una retribuzione media di 175 euro settimanali (250-300 euro per i full time), a cui va aggiunto il sommerso, particolarmente elevato nel settore.

La maternità rappresenta una causa strutturale della caduta della partecipazione femminile. L’indagine Inapp-Plus analizza cosa avviene alla nascita nel segmento di donne under 50 con almeno un figlio: la maternità ha determinato un 18% di fuoriuscita dall’occupazione. Per oltre il 52% il motivo è legato a esigenze di conciliazione, il 19% collega la fuoriuscita ad una valutazione economica e di costo-opportunità, per il 29% la causa è il non rinnovo o il licenziamento. Dunque, senza l’aumento dei servizi qualsiasi azione per aumentare l’occupazione femminile rischia di essere inutile.

Guardando al sindacato, va preso atto che una contrattazione di secondo livello principalmente incentrata sul tempo della prestazione lavorativa per la definizione della produttività penalizza le donne e la loro propensione a svolgere maggiori carichi lavorativi in minor tempo. Serve quindi una contrattazione diversa, e una politica che incentivi gli accordi che rafforzano la maggior condivisione delle responsabilità familiari.