
Il dibattito italiano sulla partecipazione registra ormai da decenni un andamento carsico, raramente in grado di sedimentarsi in assetti regolativi paragonabili a quelli dei nostri partner europei più vicini e comparabili. Pur a dispetto di un articolo costituzionale pressoché unico nel suo genere (art. 46), vi è stata, e permane, nel nostro ordinamento, l’assenza di norme organiche sul tema, come del resto su pressoché tutta l’area tematica delle relazioni industriali, se si esclude il pubblico impiego. Poco o nulla, da questo punto di vista, c’è da attendersi dalla proposta di legge di iniziativa popolare, avanzata dalla Cisl, ed ora in dirittura d’arrivo, ad iniziativa della maggioranza parlamentare di destra (Ddl 1573).
Nata sotto il meritorio intento di inverare, insieme all’articolo 46, i principi profondamente umanistici e democratici che, anche nel lavoro, pervadono il testo costituzionale, e portata avanti attraverso il sempre apprezzabile strumento della democrazia diretta, ovvero attraverso la raccolta delle firme, la proposta cislina di una “governance d’impresa partecipata dei lavoratori” ha mirato a formulare una legislazione organica sul tema. E lo ha fatto, per lo più, attingendo ad una casistica stratificata, ma disomogenea, di prassi contrattuali, variamente suffragata da norme di leggi di derivazione euro-unitaria, a partire dalla Direttiva quadro sui diritti di informazione e consultazione – che sono oggi parte dei Trattati – per come laconicamente recepita nel d.lgs 25/2007.
Posta ad ulteriore supporto delle vecchie prime parti contrattuali, quella norma avrebbe potuto essere migliorata su due versanti – la soglia dimensionale (50 addetti) e le sanzioni (amministrative e irrisorie) – ma la proposta della Cisl lascia invariata la prima, laddove per la seconda, anch’essa invariata, immaginava la creazione di un Garante della sostenibilità sociale delle imprese, quale certificatore delle condotte responsabili delle imprese, che la maggioranza di destra si è affrettata a cassare già in sede referente.
Articolata originariamente in ventidue articoli, la proposta si compone di quattro varianti: gestionale, finanziaria, organizzativa e consultiva. La natura legislativa del provvedimento non deve trarre in inganno, poiché si resta in pressoché tutti i casi nell’alveo di un primato esclusivamente contrattuale e opzionale, secondo la notoria predilezione cislina, variamente incoraggiato mediante schemi premiali, all’insegna della legislazione di sostegno e delle agevolazioni fiscali-contributive. Con una ‘partecipazione consultiva’ preventiva, a cui la maggioranza parlamentare – a scanso di equivoci – ha amputato nel titolo “obbligatoria”.
Che quella consultiva e organizzativa fosse una partecipazione già largamente acquisita e sperimentata, lo attestano vari lustri di contrattazione; sia mediante la prassi diffusa delle commissioni paritetiche, che attraverso la detassazione dei premi di produttività per quegli ‘schemi organizzativi di innovazione partecipata, o programmi di gestione partecipata’, in atto già da un decennio. Forme esse stesse di partecipazione economica, a cui il progetto aggiunge la possibilità di una distribuzione degli utili e, soprattutto, l’azionariato diffuso.
Posto che nulla l’ha finora impedito, pur rimanendo molto circoscritto – per settori e aziende – esso diviene sospetto se, con le parole dei suoi ispiratori, dovesse ambire a rappresentare la “via maestra” per far crescere i salari italiani. Non solo perché altri possono e devono essere i modi, nei Ccnl come nella contrattazione decentrata, ma per il carico di aleatorietà che implica, senza in alcun caso configurare quel profilo di reale democrazia economica, quale ad esempio fu lo svedese piano Meidner, attraverso una gestione sindacale degli extra-profitti, in vista di piani sociali.
Qui siamo nell’alveo di quegli schemi di azionariato diffuso, tanto cari al capitalismo liberale anglosassone. Nelle intenzioni dei proponenti avrebbe dovuto comunque preludere alla creazione di trust, in grado di conferire ai lavoratori azionisti una rappresentanza minoritaria negli organismi societari. Ma, neanche a dirlo, anche questa possibilità di avanzamento è stata cassata dalla maggioranza parlamentare. Insieme a quell’altra, per la contrattazione, di prender parte a ‘piani di partecipazione finanziaria’.
E siamo allo snodo probabilmente più originale del progetto, inerente alla partecipazione ‘gestionale’, ovvero ad una presenza dei rappresentanti dei lavoratori negli organi di governance societaria, modulandola diversamente a seconda dell’assetto: monistico (di grand lunga prevalente) o dualistico, nel consiglio di sorveglianza (CdS). Con uno dei rari obblighi legali disposti dal progetto, relativamente alle società a partecipazioni pubblica.
Vale ricordare che siamo gli unici, nella “vecchia” Europa, coi belgi e i britannici, a non conoscere alcuna di queste forme, laddove la presenza molto minoritaria in tali organi, farebbe ricordare alcune esperienze, come quelle nordiche o francesi. Ma, anche qui, il legislatore si è già assicurato ad espungere questo tratto qualificante del progetto, abrogandone interamente la norma che avrebbe riguardato giganti come Eni, Enel, Poste, Leonardo, Fincantieri – primi contributori in Confindustria – sfumando il ruolo della contrattazione a vantaggio degli statuti aziendali, ed eliminando ogni premialità incentivante sul piano fiscale.
Si poteva inoltre rimediare all’occasione perduta con la riforma societaria del 2003, con la previsione di un modello dualistico, ma incredibilmente negato ai lavoratori, in virtù di un malinteso requisito della “indipendenza”, per il quale ai rappresentanti con rapporto di impiego nell’impresa è negato l’accesso a quella sede (art. 2409-duodecies Codice civile). La proposta Cisl non lo ha fatto. Così come non fissa alcuna soglia dimensionale per averci lavoratori nel CdS, e neppure le modalità di individuazione di chi può entrare in quella sede.
Intervenendo nella discussione generale alla Camera, il parlamentare Arturo Scotto del Pd ha calcolato che dei ventidue articoli originari, e settantasei commi, si è giunti a un testo – prossimo al traguardo – di quindici articoli e trenta commi. Un dimezzamento quantitativo, ma forse soprattutto qualitativo. In virtù del quale ciò che verrà fuori non solo non colmerà in alcun modo la distanza che ci separa da gran parte delle legislazioni nazionali europee, e sideralmente da alcune di esse, ma neppure potrà pretendersi di aver inverato quell’articolo 46 della Costituzione.
Ciò in quanto quel che resta non è null’altro di quanto già percorso dalla nostra contrattazione, se non addirittura di meno (ma per fortuna resta sempre una clausola di salvaguardia), laddove le maggiori innovazioni sono state tutte cassate o stravolte. E non per mano dell’antagonismo “tossico” della sinistra “rimasta al ‘900”, ma dal padronato e dai suoi interpreti; come tante altre volte in passato.
Del resto, con gli attuali rapporti di potere fra capitale e lavoro – a livello globale – cosa possiamo realisticamente attenderci, su questo versante?
Insomma: tanto rumore per nulla. Se non fosse interessata ad una legge pur che sia, da sventolare quale trofeo di un sindacalismo pragmatico e fattivo, la Cisl dovrebbe denunciare vibratamente lo snaturamento del suo progetto. Prevale invece l’interesse strumentale, suo e dell’attuale esecutivo, ad accreditarsi reciprocamente – sul fronte destro dello schieramento socio-politico del paese – un’attenzione ed una efficacia sulle politiche sociali e del lavoro, puramente retorica e di facciata.
Il capitalismo italiano, anche dopo questa legge, potrà continuare a dormire sonni tranquillissimi. Laddove la partecipazione e i salari dei lavoratori staranno esattamente dov’erano il giorno prima del suo varo.