Consulta e Cassazione confermano l’esigibilità del diritto, mentre il governo – e qualche tribunale – segue la logica del “proibire e punire”.

Nel mese di gennaio dello scorso anno la Corte Costituzionale, con la sentenza 10/2024, aveva dichiarato l’illegittimità dell’articolo 18 dell’Ordinamento Penitenziario, che prevede il controllo visivo dei colloqui delle persone ristrette con i propri partner. Avevamo salutato con favore la sentenza, perché il diritto all’affettività deve essere pienamente esigibile anche per le persone ristrette.

Il Parlamento avrebbe dovuto adottare nel più breve tempo possibile una norma che rendesse esigibile quanto stabilito dalla suprema Corte. Invece sono passati mesi, è passato un anno, e nulla è stato fatto. Non che si nutrissero troppe speranze: sappiamo purtroppo quanto questo sia il governo dal profondo afflato giustizialista, punitivo, panpenalista. Quanto sia il governo del marcire in carcere, del buttare la chiave, perché in fondo se certe persone sono in carcere è perché se la sono cercata. Si è persino arrivati a dire che se non c’è l’acqua calda dove sta il problema? Mica siamo in un albergo… La certezza della pena come durezza della pena, tanto che qualsiasi provvedimento di clemenza viene spacciato per cedimento dello Stato, e per mancanza di rispetto delle vittime.

Nonostante sia chiaro, ed evidente per chiunque lo voglia vedere, che una pena mite, rispettosa dei diritti delle persone, alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’affettività, è il mezzo più efficace per declinare compiutamente quanto previsto dalla Costituzione, per garantire reinserimento e risocializzazione, per abbattere la recidiva.

A nulla sono valsi gli appelli di tanti, compreso il Papa con l’apertura della porta santa nel carcere di Rebibbia, o le parole del presidente Mattarella sul carcere nel discorso di fine anno. Il governo ha continuato imperterrito il percorso intrapreso fin dal proprio insediamento.

In questo quadro si inserisce la decisione del Tribunale di Torino, che ha rigettato la richiesta da parte di un detenuto di poter accedere a colloqui intimi con la moglie, definendola come una mera aspettativa, che non si configura come un diritto giuridicamente tutelabile. Decisione che non ha suscitato, di fatto, le reazioni che avrebbe dovuto provocare, perché nega un diritto esigibile, a maggior ragione a fronte di una sentenza della Corte di Cassazione che si pronuncia in maniera inequivocabile.

La pena, secondo chi ci governa, deve essere privazione non solo della libertà, ma afflizione, negazione di tutto ciò che può far stare bene la persona ristretta. A maggior ragione se si parla di sesso: che pena è quella che concede a un reo addirittura di poter avere rapporti intimi con il partner?

La decisione del Tribunale di Torino avrebbe dovuto suscitare quantomeno indignazione, e preoccupazione, perché sconfessa una sentenza della suprema Corte, ma così in fondo non è stato, è passata sotto silenzio, a parte alcuni articoli dei pochi giornalisti che ancora provano a proporre un punto di vista diverso dalla narrazione comune sul carcere.

Non solo, diverse voci, comprese quelle di alcuni rappresentanti del personale, ed anche del Garante nazionale, si sono levate per dire che, viste le condizioni in cui versano le carceri, la mancanza di ambienti adeguati, si potrebbe ricorrere a permessi “ad hoc”. Dimenticando, o facendo finta di dimenticare, che un diritto non può essere negato per carenze (fra l’altro non insormontabili) dell’istituto penitenziario. E facendo finta di non sapere che un diritto deve essere esigibile per tutte le persone, non può essere una concessione, una premialità. Un diritto è tale quando lo è a prescindere, non può essere “meritato”.

Nota positiva: il provvedimento del Tribunale di Torino è stato impugnato, e la Cassazione ha stabilito che la libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, e che i colloqui possono essere negati solo per ragioni di sicurezza; quindi ha, conseguentemente, annullato quel provvedimento.

La decisione della Cassazione è sicuramente importante, motiva tutti a proseguire nel percorso di tutela e promozione dei diritti delle persone ristrette: rischia però di passare sotto silenzio, vista la propaganda assordante del governo sul carcere, sulla giustizia. Non possiamo tollerare che per vedere riconosciuto un diritto le persone siano costrette a promuovere ricorsi e vertenze.

Deve comunque essere uno stimolo per tutti a proseguire per provare a fermare quella china che ci sta portando in maniera sempre più travolgente verso uno Stato autoritario, dove gli altri sono visti come pericoli, come nemici, dove il penale sostituisce sempre più il sociale, secondo la logica del proibire e punire.