Il 15 aprile scorso ha marcato i due anni esatti dall’inizio del brutale conflitto in Sudan. Nell’occasione Oxfam, con un nuovo rapporto, pubblicato assieme a South Sudan Forum, Inter Agency Working group for East and central Africa (Iawg) e Forum des Ong en Afrique de l’Ouest et centrale (Fongi), ha lanciato l’ennesimo appello alla comunità internazionale per affrontare “la più grave crisi umanitaria al mondo”.

Dopo il colpo di Stato che ha deposto il dittatore Omar al-Bashir nel 2019, a capo del Paese per oltre trent’anni, la guerra che sta dilaniando il Sudan ha spezzato le speranze di una transizione democratica che aveva visto protagonista un largo movimento giovanile pacifico e non violento (vedi https://www.sinistrasindacale.it/2024/06/02/un-anno-di-guerra-dimenticata-in-sudan-di-sinistra-sindacale/). Il potere era passato nelle mani di due generali rivali, Abdel Fattah al-Burhane, leader delle Forze armate sudanesi (Fas), e Mohamed Hamdane Daglo, detto Hemetti, comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf).

Dopo una fragile convivenza, lo scontro per il controllo del Paese è degenerato in un conflitto devastante, alimentato dal coinvolgimento di diverse potenze regionali e globali, che si contendono, insieme a posizioni strategiche sul piano geopolitico, il controllo delle risorse naturali, in particolare l’oro, tanto che la guerra viene definita “guerra dell’oro”.

Gli Emirati Arabi Uniti (Eau) emergono come uno dei principali attori, sostenendo militarmente e diplomaticamente le milizie che stanno destabilizzando il Sudan con un interesse diretto nella conquista e nel controllo delle risorse naturali. Un intervento che rientra nella loro strategia di diversificazione economica post-petrolifera ed è parte di un più ampio disegno geopolitico – nella salda alleanza strategica con gli Stati Uniti – che li vede attivi anche in Libia, Yemen e nel Mar Rosso.

Altri attori regionali come il Sud Sudan, l’Etiopia, il Kenya e l’Uganda sono coinvolti a vari livelli, alcuni per ragioni economiche, altri per legami storici o alleanze politiche. Ma in Sudan si gioca anche una parte “nascosta” del conflitto tra Russia e Ucraina. L’intervento di Kiev – soprattutto attraverso la fornitura e l’utilizzo di droni – ha avuto un impatto significativo, rafforzando l’esercito sudanese nella lotta contro il gruppo Wagner, che aveva stretti legami economici e militari con la milizia Rsf.

La situazione è cambiata dopo la morte di Yevgeny Prigozhin, quando l’esercito sudanese ha deciso di richiedere assistenza militare alla Russia. Un cambiamento di alleanze, segnalato anche dalla richiesta russa di una base militare sul Mar Rosso, che ha portato alla fine dell’influenza ucraina, mentre la Russia si è rafforzata come interlocutore privilegiato del governo sudanese.

La guerra ha trasformato il sogno di una transizione pacifica verso la democrazia in un incubo di violenza e sofferenza. Il popolo sudanese, dopo la rivoluzione pacifica per rovesciare il regime islamista durato 30 anni, sperava di uscire dalla spirale delle guerre interne, come quelle in Darfur, Nuba e Sud Sudan. La guerra ha costretto più di 14 milioni di sudanesi a fuggire, una parte significativa ha dovuto lasciare ripetutamente le proprie case in cerca di rifugio. Le donne, violentate e vendute, sono diventate bersaglio di un conflitto che non è solo politico, ma anche di distruzione della società. Il bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto delle stime ufficiali: se l’Onu parla di 14mila morti, una fonte londinese suggerisce che siano almeno 60mila solo nella capitale Khartoum.

Sebbene la comunità internazionale abbia riconosciuto il genocidio, non ha agito efficacemente per fermare il conflitto né per fornire sufficienti aiuti umanitari, lasciando il Sudan nel caos e milioni di rifugiati in condizioni disperate in Egitto, Etiopia, Sud Sudan e Ciad, dove l’assistenza è scarsa o inesistente.

Secondo il rapporto Oxfam, in Sudan un abitante su due è colpito da malnutrizione, mentre si stanno affrontando gli effetti della carestia, che potrebbe colpire altri otto milioni di persone. Infatti l’arrivo delle precipitazioni potrebbe causare inondazioni e bloccare le vie di comunicazione verso intere zone del Paese, rendendo impossibile portare aiuti essenziali. Sempre più persone saranno costrette a fuggire verso il Ciad e il Sud Sudan, due dei paesi più poveri al mondo, a loro volta colpiti dall’impatto della crisi climatica e da altissimi livelli di malnutrizione.

La crisi umanitaria in Sudan colpisce oltre trenta milioni di persone, il numero più alto mai registrato in un solo Paese, e più di 17 milioni di bambini non possono andare a scuola. Ma finora sono stati stanziati appena il 10% degli aiuti richiesti dall’Onu per rispondere all’emergenza nel 2025, e a questo si aggiunge la cancellazione di 64 milioni di dollari di finanziamenti di UsAid per il Ciad e il Sud Sudan, di cui gli Usa erano il principale donatore.

(15 aprile 2025)