Uno degli ultimi impegni pubblici di Papa Francesco è stato lo scorso giovedì santo, quando si è recato al carcere di Regina Coeli per incontrare le persone detenute. Un appuntamento al quale il pontefice non voleva mancare, benché sofferente, per dire ancora una volta al mondo, alla società tutta, di non condannare, di non puntare il dito verso chi ha sbagliato e di offrire sempre possibilità di recupero. Una sorta di commiato, un abbraccio ai suoi “fratelli carcerati”, i reietti che sono stati sempre nel suo cuore, quasi avesse il presentimento che sarebbe stato l’ultimo.

Nel 2016, Anno Santo della Misericordia, in occasione del Giubileo dei carcerati del 6 novembre, Papa Francesco all’Angelus, dopo la messa a San Pietro con i detenuti, aveva sollecitato i governi a compiere per loro un atto di clemenza, lanciando anche un appello in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri in tutto il mondo, “affinché sia rispettata pienamente la dignità umana dei detenuti”.

Quel giorno c’ero anch’io, da detenuto, accanto al pontefice, non potrò mai dimenticarlo. Don Silvano, il cappellano a cui mi legava ormai un rapporto fraterno di amicizia, ci aveva preannunciato che alcuni di noi sarebbero stati scortati a Roma per assistere alla celebrazione del Giubileo dei carcerati. Avremmo potuto farlo da una posizione molto vicina al pontefice, ci aveva promesso “il don”. Nessuno tra gli undici “prescelti”, tuttavia, si sarebbe mai aspettato di trovarsi faccia a faccia con Francesco e, men che meno, accanto a lui sull’altare come chierichetto.

“Cari detenuti, è il giorno del vostro Giubileo! Che oggi, dinanzi al Signore, la vostra speranza sia accesa. Il Giubileo, per la sua stessa natura, porta con sé l’annuncio della liberazione. Non dipende da me poterla concedere, ma suscitare in ognuno di voi il desiderio della vera libertà è un compito a cui la Chiesa non può rinunciare. A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io?”.

Le parole pronunciate da Papa Francesco hanno spalancato i cuori e hanno anche contribuito ad accrescere la commozione dei chierichetti-galeotti: ricordo ancora di essere inciampato in mondovisione mentre mi avvicinavo al pontefice per versare l’acqua, ma ho trovato una mano pronta a sorreggermi e un sorriso tranquillizzante.

Oggi, chi ha avuto il privilegio di incrociare sul proprio cammino lo sguardo di quell’uomo “venuto dalla fine del mondo” non può che aggrapparsi alla speranza per vincere la malinconia, il senso di solitudine e il vuoto che lascia la scomparsa di una figura che ha rappresentato un punto di riferimento. Tanto più profondo è il vuoto se si ha avuto l’opportunità, come è capitato a me, di stare vicino a Francesco anche una seconda volta, a distanza di qualche anno, quando avevo finito di scontare la mia pena. Nella lettera indirizzata al Papa, scritta durante la pandemia, chiedevo di poterlo incontrare di nuovo insieme a Simona, la donna che mi aveva rivoluzionato la vita.

Si è aperta la porta, è entrato in quel salottino di Santa Marta dove ci avevano fatti accomodare. Da solo, senza tanti convenevoli, sorridente, e con quell’andatura ciondolante a causa dell’artrosi che lo rendeva ancora più umano, fratello e vicino. “Come state?”. Papa Francesco mi ha abbracciato, poi ha allungato la mano verso quella di Simona e ha intuito immediatamente che quelle mani non si sarebbero mosse a causa della sclerosi multipla. Si è seduto di fronte a noi e ha ascoltato. Mezz’ora di lacrime e sorrisi; racconti di vite che si intrecciano e arrancano guardando oltre le difficoltà del quotidiano. “Pregate per me” è stata la sua raccomandazione finale.

Da qualche anno Simona ed io incontriamo gli studenti di scuole e università lungo la penisola per parlare di disabilità e carcere, di diritti, pregiudizi e speranza nel futuro: in qualche modo è la nostra preghiera laica. La speranza, però, va concretizzata con l’agire, e senza ipocrisia, come ha affermato il presidente Sergio Mattarella: “La morte di Papa Francesco suscita dolore e commozione tra gli italiani e in tutto il mondo. Il suo insegnamento ha richiamato al messaggio evangelico, alla solidarietà tra gli uomini, al dovere di vicinanza ai più deboli, alla cooperazione internazionale, alla pace nell’umanità. La riconoscenza nei suoi confronti va tradotta con la responsabilità di adoperarsi, come lui ha costantemente fatto, per questi obiettivi”.

La politica, esauriti i coccodrilli, faccia proprie le esortazioni di Jorge Bergoglio e si adoperi affinché anche le carceri diventino luoghi di speranza e non di morte e disperazione.