“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, così inizia la Costituzione del nostro Paese. Da tempo però il lavoro è sempre più tartassato, le persone che lavorano alle dipendenze di un’azienda sembrano non costituire più un valore sociale.

Dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso è prevalsa nella società l’idea che il libero mercato avrebbe migliorato le condizioni economiche del Paese e delle persone che vi vivono. In nome della libertà d’impresa si sono ridotti vincoli e regole, lo Stato ha rinunciato ad un ruolo regolatore dell’economia, perché – si diceva – se le imprese, libere di operare come meglio credono, producono e guadagnano, tutti ne avremo benefici.

L’idea di una società diversa, non fondata esclusivamente sull’economia e sulla libertà dell’impresa privata, di fatto fu abbandonata da gran parte della politica. Così nella società neoliberista, che si è disegnata negli ultimi trent’anni almeno, il lavoro è diventato un fattore della produzione: una variabile, il cui costo deve essere contenuto il più possibile, da usare solo per il tempo necessario alla produzione.

Si è smesso di parlare di persone che lavorano ed è iniziata la progressiva perdita di diritti, si è perseguita la maggiore flessibilità del lavoro, diventato sempre più precario. E nelle aziende prive di contrattazione integrativa (che in Italia sono la maggior parte) perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni e precarietà si sono fatte sentire ancor di più.

L’individualismo che ha accompagnato questo processo ha reso le persone più sole, ed ha contribuito a rompere lo spirito di solidarietà che aveva caratterizzato lavoratori e lavoratrici.

Contro il peggioramento delle condizioni di chi lavora, contro le ingiustizie presenti nei posti di lavoro, è necessaria una rivolta. E il mondo del lavoro, per anni inascoltato dalla politica, può intervenire sullo stato delle cose presenti con lo strumento di esercizio diretto della democrazia previsto dalla Costituzione: il referendum abrogativo.

Il voto ai referendum è la nostra rivolta, può rappresentare l’inizio di una diversa prospettiva. Con il referendum i cittadini e le cittadine possono decidere di cancellare le norme di legge che ritengono particolarmente sbagliate. E il risultato del referendum si applica subito, la vittoria del Sì sancisce la cancellazione della norma oggetto del referendum, con effetto immediato.

La vittoria del Sì determina direttamente la modifica di alcune norme sul lavoro e sulla cittadinanza, ottenendo subito un miglioramento delle condizioni delle persone che lavorano e vivono nel nostro Paese, riducendo la precarietà, le differenze tra lavoratori, aumentando dignità e sicurezza.

Le conquiste e gli avanzamenti nel mondo del lavoro sono sempre stati determinati da una forte azione collettiva. Ma perché il risultato del referendum sia valido, è necessario il voto della maggioranza degli elettori e delle elettrici. L’8 e il 9 giugno possiamo determinare, attraverso l’attiva partecipazione al voto, una nuova grande azione collettiva che produrrà un effettivo cambiamento.

Abbiamo la possibilità di fermare i licenziamenti illegittimi per le persone assunte dopo il 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti, ripristinando l’obbligo del reintegro nel caso in cui una sentenza dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Mentre nelle imprese con meno di 16 dipendenti possiamo cancellare la norma che prevede solo un massimo di sei mensilità di risarcimento, anche quando il giudice reputi illegittimo il licenziamento.

In Italia circa 2 milioni e 300mila persone hanno contratti a tempo determinato. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a dodici mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Possiamo ripristinare l’obbligo di causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato, riducendo il lavoro precario.

Ancora, la rincorsa al minore costo del lavoro favorisce il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche: cancelliamo le norme attuali che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante, per garantire maggiore sicurezza sul lavoro.

Infine riduciamo da dieci a cinque anni il requisito di residenza legale in Italia per poter richiedere la cittadinanza italiana. Riconosciamo diritti ed opportunità alle persone di origine straniera che nascono, crescono, abitano, studiano e lavorano nel nostro Paese.

Molta strada resta da fare perché il lavoro ritorni ad essere “il presupposto per affermare la dignità e la libertà delle persone e quindi la loro uguaglianza e parità sociale”, come affermato nella nostra Costituzione. Sicuramente andando a votare e votando cinque Sì l’8 e il 9 giugno faremo un importante passo in quella direzione.