Il referendum sulla cittadinanza rappresenta una sfida cruciale su più livelli. Più di un semplice strumento di democrazia diretta, esso incarna la possibilità concreta di un cambiamento, la volontà di costruire comunità coese, creare unione e lavorare insieme verso un obiettivo comune. A prescindere dalle diverse posizioni, questo referendum richiama l’importanza di partecipazione attiva, informazione e consapevolezza del privilegio di chi può votare.

Questo referendum è storico per molteplici motivi. Non solo ha ottenuto un numero significativo di firme esclusivamente online in meno di un mese, ma per la prima volta affronta direttamente la vita di milioni di persone che, paradossalmente, non hanno il diritto di esprimersi sulla questione. Chi ha il diritto di voto si trova quindi investito di una responsabilità ancora maggiore: la possibilità di decidere le sorti di chi è escluso dal voto.

Il quesito è chiaro: abolire il requisito dei 10 anni di residenza continuativa per le persone con cittadinanza extra Ue che vogliono richiedere la cittadinanza italiana. Un primo passo verso la modifica della legge 91/1992, che da oltre 30 anni crea discriminazioni e doppi standard tra cittadini Ue e non Ue. Infatti, mentre per i cittadini comunitari sono richiesti solo 4 anni di residenza, per gli extra-Ue il periodo sale a 10 anni, contribuendo a una disparità che limita diritti fondamentali e prolunga uno stato di precarietà e incertezza.

Questa disparità normativa è una delle tante manifestazioni del razzismo istituzionale, che esclude milioni di persone da diritti basilari, come la libertà di movimento e la possibilità di costruire un futuro stabile senza l’ansia del rinnovo del permesso di soggiorno, con le file interminabili nelle questure e discriminazioni strutturali che portano alla mancanza di accesso al lavoro e ad altri diritti correlati. Il referendum coinvolge direttamente più di due milioni di persone adulte con cittadinanza extra Ue, che già vivono, lavorano e contribuiscono alla società italiana, ma sono escluse dai pieni diritti civili.

Il referendum si inserisce in un percorso di lotta per una riforma complessiva della legge sulla cittadinanza, iniziato più di 10 anni fa con campagne come “L’Italia sono anch’io”. Tuttavia, finora la questione è stata sistematicamente ignorata dalle agende politiche, che hanno visto i migranti e i loro figli solo come migranti e stranieri e non italiani senza cittadinanza, come una popolazione senza diritti, relegabile e dunque relegata volutamente ai margini della società, sfruttabile ma mai riconosciuta come parte integrante della comunità nazionale.

L’abolizione del requisito dei 10 anni di residenza rappresenterebbe una svolta per milioni di persone che già risiedono e lavorano in Italia. Faciliterebbe il riconoscimento della cittadinanza per i figli di cittadini extra Ue nati in Italia: oggi devono attendere il compimento dei 18 anni e dimostrare 18 anni di residenza continuativa per poter accedere alla cittadinanza con una procedura semplificata. Intere generazioni – non solo seconde, ma anche terze e quarte – che vivono in un limbo burocratico imposto da una legge obsoleta.

Il referendum non interviene su altri aspetti problematici della normativa, come l’obbligo di un reddito minimo per almeno tre anni prima della richiesta di cittadinanza, il requisito della conoscenza della lingua italiana o l’assenza di condanne penali. Resta comunque un passaggio fondamentale per superare l’idea della cittadinanza come un “premio”, anziché un diritto legato alla vita delle persone.

Riconoscere la cittadinanza con criteri più umani significa adeguarsi agli standard della maggior parte dei Paesi europei, ed anche accettare che l’idea di italianità è in continua evoluzione. L’Italia è cambiata e continua a cambiare, ma la sua legislazione sulla cittadinanza è ferma al 1992. È giunto il momento di superare concezioni anacronistiche basate sul diritto di sangue, che favorisce chi ha lontane origini italiane rispetto a chi vive nel Paese da anni, spesso svolgendo lavori essenziali nei settori della cura, agricolo, manifatturiero, della ristorazione.

Il referendum è una occasione per riflettere su cosa significhi essere italiani: l’appartenenza a una comunità, il contributo che si dà alla società, o solo una questione di discendenza?

L’Italia del domani esiste già da decenni, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle città e nei paesi. Aspetta solo di essere riconosciuta.

Votare a questo referendum significa essere protagonisti di un cambiamento storico, riconoscere che l’Italia è una comunità in divenire, capace di accogliere e di far partecipare chi ne fa parte da anni. È un atto di responsabilità e consapevolezza, oltre gli interessi politici e le strumentalizzazioni.

Creare comunità significa anche questo: esercitare il diritto di voto per costruire un Paese più giusto e inclusivo. Convincere chi ci sta intorno a partecipare, rendersi conto del privilegio che si ha nell’impugnare una matita ed entrare in un seggio.

Il futuro dell’Italia si decide oggi, riconoscendo finalmente chi è già parte di essa.