L’avvenire dell’automobile è passato, ma nessuno ne vuol prendere atto.

“Non sono antinucleare. E voi siete antiautomobilistici?”. Con questo titolo provocatorio Paolo Degli Espinosa interveniva su ‘il manifesto’ nel dibattito allora in corso (era il 1979, poco prima dell’incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island) sulle implicazioni della scelta nucleare in relazione alla crisi del modello di sviluppo apertasi, non a caso, con la crisi petrolifera del 1973. Negli anni a seguire Degli Espinosa cambiò il suo atteggiamento verso la scelta nucleare, ma ciò non sminuì – a mio avviso – il senso della sua provocazione.

Erano anni quelli, in cui la messa in discussione del modello di sviluppo capitalista negli ambienti politici e sindacali era una pratica corrente, a cominciare proprio dal settore automobilistico (oggi si direbbe automotive), il cui prodotto-simbolo è rappresentato dalla automobile.

Cose dell’altro mondo verrebbe da dire, ché ormai l’automobile è da considerare alla stregua di ciò che rappresentava il Verbo per gli evangelisti, con la precisazione però che non di sola fede si tratta, ma di inconfutabile realtà. Prova ne sia la diffusione di questo prodotto-simbolo nel mondo: se nel 1970 la densità automobilistica negli Usa era di una autovettura ogni due persone; nell’Europa occidentale era di una autovettura ogni 5,2 persone; in Sud America una su 38; una su 147 nell’Urss; una su 191 in Africa; una su 902 in India e una su 27.707 in Cina, oggi come oggi bisogna prendere atto che le strade di Pechino, una volta percorse da milioni di biciclette, sono gremite di automobili. Il che, se da un lato testimonia dei progressi della Cina, non impedisce che il mondo sia divenuto ancor più diseguale, considerato che, ad esempio, in tutto il continente africano circolano 34 milioni di autoveicoli, mentre nella sola Italia ce ne sono 39 milioni.

Dunque è con questa realtà che bisogna fare i conti. Ma come? Qui entrano in gioco due fattori principali: le politiche globali delle classi dirigenti e gli interessi dei grandi gruppi industriali del settore, ovvero dei singoli capitalisti che – non bisogna mai dimenticarlo – non coincidono necessariamente con le strategie del capitale in quanto tale, perché sempre ogni singolo capitalista è in guerra con il suo concorrente, e a farne le spese sono le rispettive classi lavoratrici.

Tre sono i grandi player di questo risiko mondiale: Stati Uniti, Europa e Cina. I primi due, posti di fronte all’impetuoso sviluppo del terzo, hanno avuto reazioni diverse: gli Usa con il solito atteggiamento muscolare (sanzioni economiche e minacce belliche alla Cina), mentre l’Europa ha giocato la carta del “new green deal”, non solo come risposta alla crisi climatica ma come strategia globale con cui tentare di rilanciare il modello di sviluppo ormai in crisi da anni, a cominciare proprio dal suo prodotto simbolo.

Secondo l’Unione europea il futuro dell’automotive sta nei veicoli elettrici (Ev), avendo contestualmente stabilito che nel 2035 deve cessare la produzione di auto con motore a scoppio. Affinché ciò sia possibile e congruente con l’obiettivo delle emissioni zero, devono essere rispettate almeno tre condizioni: 1) che l’elettricità non sia prodotta da fonti fossili, altrimenti la ricarica delle auto elettriche risulterebbe comunque inquinante; 2) che i costi di acquisto e gestione dell’auto elettrica siano concorrenziali con quelli dell’auto tradizionale; 3) che la fruibilità dell’auto elettrica sia pari a quella dell’auto tradizionale (disponibilità delle stazioni di ricarica e tempi di ricarica).

Alla data del 2035 la prima condizione non sarà rispettata perché – in base alle stime attuali – la sostituzione fossili/rinnovabili non corrisponderà ai valori previsti dal green deal europeo, e ciò a prescindere dalla percentuale di Ev che saranno in circolazione. La seconda condizione è molto lontana dall’avverarsi, in quanto i costi di acquisto degli Ev (quelli totalmente elettrici) sono molto più alti di quelli dei veicoli tradizionali, e lo stesso vale per i costi di gestione: costo delle batterie e costi di ricarica che, se non si dispone di un allaccio privato (box o simili), risultano proibitivi dato che nelle colonnine pubbliche si arriva a pagare anche 90 centesimi di euro per Kwh. Quanto alla terza condizione, essa pone sfide non indifferenti dato che, in prospettiva, si tratta di ri-cablare tutte le reti urbane, e predisporre una capacità di generazione indipendente e diffusa su tutta la rete stradale e autostradale che garantisca gli stessi servizi oggi offerti ai veicoli a combustione interna (autovetture e mezzi di trasporto merci) dalle stazioni di servizio diesel-benzina.

È dunque nell’impostazione concettuale del “new green deal” (oltre che nelle difficoltà intrinseche del settore automotive) che bisognerebbe riportare l’attenzione, unitamente al fatto che certe modalità di attuazione (come detto sopra) risultano persino incompatibili con le sue stesse premesse.

Come non accorgersi che l’attuale crisi dell’auto è anche figlia di questa impostazione? Scarseggiano i materiali critici (nella fabbricazione di un automobile elettrica intervengono otto elementi appartenenti alle “terre rare” che non sono di facile acquisizione da parte del comparto automobilistico occidentale); i costi dei materiali più comuni come rame ed alluminio sono considerevolmente aumentati; le batterie al litio sono divenute costosissime; i tempi di ricarica delle auto elettriche sono ancora troppo lunghi se rapportati a quelli dell’auto tradizionale e, se si ricorre alle cosiddette ricariche rapide, si accorcia la vita della batteria del 25-30%.

Nonostante ciò, l’Unione europea ha deciso che fra dieci anni occorre interrompere la produzione dei motori a combustione. Il risultato è l’ulteriore concentrazione e integrazione del settore auto, perdita di posti di lavoro e, ovviamente, aumento dei prezzi delle automobili: ma davvero l’abbattimento delle emissioni da trasporto (perché di questo si tratta) non poteva essere perseguito anche per altre vie, piuttosto che limitarsi a sostituire il motore di un’auto o di un camion? Oltre il 90% delle merci sono trasportate su gomma e, invece di concepire un piano organico di rilancio delle ferrovie, ci si concentra esclusivamente sulla motorizzazione elettrica o a idrogeno dei mezzi di trasporto pesanti, nonostante già si sappia che i tempi di sosta per i rifornimenti (ricariche) sconvolgeranno l’intero settore, senza alleviare in alcun modo il traffico autostradale.

Analogo discorso vale per le città dove si privilegia il bus elettrico ma non la tramvia, senza nulla incidere sul traffico privato che è la prima causa di inefficienza del trasporto pubblico su gomma.

Per rendersi conto di quanto sia fallace questo modo di agire, è utile leggere l’ultimo documento firmato dalla Fiom e dalle maggiori organizzazioni ambientaliste italiane dal titolo “Alleanza clima lavoro” (https://sbilanciamoci.info/wp-content/uploads/2023/04/Documento-Alleanza-Clima-Lavoro_def.pdf) dove si fa un panegirico della mobilità elettrica con in testa l’automobile, per non parlare del trasporto merci per il quale si chiede un tempestivo passaggio all’elettrificazione, non su ferrovia ma su gomma.

Pur mettendo in conto che qui si tratta di difendere i posti di lavoro, è del tutto evidente che gli estensori non si rendono conto di cosa sta succedendo nella realtà, nella misura in cui chiedono ai “padroni” e al governo di riconvertire il settore automotive all’elettrico, quando è proprio la scelta dell’elettrico ad averlo messo definitivamente in crisi!

Non a caso i segnali che vengono dagli Usa e dalla Germania vanno nella direzione di un sensibile ridimensionamento degli obiettivi del “new grean deal”, a cominciare proprio dall’automotive. Donald Trump, oltre a uscire dal protocollo di Parigi sulle emissioni in atmosfera, ha messo dazi di importazione anche sulle auto straniere e ha cancellato i sussidi per l’auto elettrica, cosa che avrà un effetto di trascinamento su tutti i paesi del Sud America, che già incontravano difficoltà a stare al passo con le tappe della transizione energetica. In Germania, dove la Volkswagen è in crisi profonda, la nuova compagine di governo rivedrà al ribasso la tabella di marcia verso le emissioni zero, sia rallentando l’espansione delle rinnovabili che posticipando l’uscita definitiva dei motori a combustione interna.

In questo scenario di forte competizione inter-capitalistica, dove l’Europa rischia di implodere stretta com’è tra il neo protezionismo Usa e la (per ora) inarrivabile concorrenza cinese, le classi dirigenti europee non trovano di meglio che investire sulla guerra, innalzando le spese militari sull’onda di quella scellerata esclamazione che Mario Draghi fece nel 2022, sostenendo l’embargo al gas russo: “Volete la pace o il condizionatore acceso?”. Una frase che riecheggiava sinistramente la domanda che Mussolini rivolse alla folla dal balcone di Palazzo Venezia nel 1938: “Volete burro o cannoni?”

Dato che si sa come andò a finire, non facciamoci fregare un’altra volta

(26 febbraio 2025)