
Milano 4 marzo 2025
Relazione Giacinto Botti, referente nazionale
Parafrasando la famosa battuta del replicante nel film cult “Biade runner” potremmo dire: “abbiamo visto cose che noi umani non potevamo immaginare!”, come ad esempio il Presidente di una nazione definita faro di civiltà e custode dei valori occidentali farsi promotore di un video feroce e disumano che mostra una Gaza trasformata in località turistica per ricchi, una volta compiuta la pulizia etnica di un intero popolo.
Ma a differenza del replicante noi pensiamo che questo non sia il tempo di morire ma di ribellarsi, di uscire dall’indifferenza. Perché il silenzio che ci circonda non è una semplice quiete, è una forma di rassegnazione che impedisce di reagire in modo forte e deciso, di organizzare quella mobilitazione collettiva così necessaria per cambiare la qualità della vita di tutti e produrre quella energia positiva necessaria al radicale cambiamento dell’Europa e del Paese.
Noi non ci rassegniamo alla realtà, alla barbarie di quanto di orribile è avvenuto e sta avvenendo a Gaza, con decine di migliaia di vittime, bambini, donne e civili straziati dalle bombe sganciate cinicamente su ospedali, case, scuole e sui campi profughi. Un genocidio, non abbiamo paura delle parole, da parte del governo fascista e fondamentalista di Israele, che lascia morire di fame, sete, malattie e stenti un popolo, occupando e invadendo le terre altrui. Per Gaza e il popolo palestinese non esistono il diritto e gli organismi internazionali. Il primo Ministro israeliano Netanyahu, considerato dalla giustizia un assassino che si è macchiato di crimini di guerra per i quali è stato emesso dalla Corte Penale Internazionale un mandato di arresto, all’Onu ha parlato con disprezzo di questa istituzione internazionale che non riconosce, definendola una palude di antisemitismo. Abbiamo sentito parole terrificanti, impensabili nel XXI secolo: per Trump e per gli Stati Uniti la deportazione diventa una realtà. Da oltre 75 anni la Palestina vive la Nakba in tutte le sue forme – sfollamento, uccisioni, cancellazioni, sradicamento dalla propria casa – e dalla prima Nakba del ‘48 a oggi nulla è cambiato. Gli Stati Uniti, con la complicità dell’Europa, da sempre sono stati i principali facilitatori di questo massacro, sostenendo la macchina da guerra, fornendo copertura politica e aiuti militari e alimentando una narrazione che giustifica il crimine come risposta a un altro orrendo e ingiustificabile crimine compiuto da Hamas. Da tempo è in atto un piano sistematico per porre fine alla vita umana a Gaza. Ma la storia dice che Gaza non è solo un luogo, è un’identità, una memoria collettiva, la patria di un popolo che lotta per la sopravvivenza e il suo futuro. Diciamolo con profonda tristezza: all’Europa, agli USA, alla Russia, ai paesi Arabi non interessa veramente di salvare Gaza e il popolo palestinese.
Colgo l’occasione per ringraziare e dare la nostra solidarietà a quei pochi, purtroppo, ebree ed ebrei che hanno avuto il coraggio di firmare l’appello “NO alla pulizia etnica.” Grazie a Gad Lerner, Roberto Saviano, Anna Foa, Carlo Ginzburg, a Moni Ovadia, al compagno e amico Claudio Treves e a tutti coloro che hanno scelto di rompere il silenzio denunciando il governo fondamentalista e fascista di Israele e un assassino latitante come Netanyahu. A loro va la nostra concreta solidarietà perché stanno subendo, come tutti noi e tutti coloro che si sono messi a fianco della lotta del popolo palestinese, la ripugnante e odiosa accusa di antisemitismo o, peggio, di essere sostenitori dei terroristi massacratori del 7 ottobre. Le storie diventano tutte uguali quando manca la distinzione dei valori e si ricorre a un pezzo di verità. Una verità a pezzi non è mai una verità. Noi siamo a fianco del popolo palestinese.
Care compagne, cari compagni, buongiorno, grazie per la vostra presenza. Questa’assemblea nazionale rappresenta meglio di ogni parola il senso, la giustezza, il valore della presenza in CGIL della sinistra sindacale confederale collettivamente organizzata. Se oggi siamo qui è grazie alla capacità, alla caparbietà, all’intelligenza e alla passione delle delegate e dei delegati, dei dirigenti storici e di quelli attuali. Siamo una realtà aperta e consapevole della propria non autosufficienza, impegnata nella ricerca di un pensiero alto, di una proposta condivisa per andare oltre i propri ristretti confini e misurarsi con la complicata, inedita situazione politica, economica e sociale a livello nazionale, europeo e internazionale. La non presenza di un componente della Segreteria nazionale CGIL è una occasione persa per un confronto proficuo non solo nei gruppi dirigenti.
Ciò detto, questa introduzione, lunga e che potrete leggere compiutamente non è un testamento ma un contributo al confronto, alla riflessione che dobbiamo sempre promuovere ed esercitare. E’ l’introduzione più difficile di questi anni, in considerazione della situazione internazionale in movimento, di un cambio d’epoca non formale ma sostanziale dopo la vittoria elettorale del malefico duo Trump-Musk, del suicidio dell’Europa sul fronte della guerra per procura in Ucraina e in considerazione del fatto che questa sarà la mia ultima introduzione da referente nazionale della nostra aggregazione di sinistra sindacale confederale. Un avvicendamento naturale, giusto ma non per questo facile, che segna il tempo che passa, insieme al bisogno di non disperdere ma di innovare questa straordinaria esperienza collettiva attraverso il nostro impegno e quello del nuovo referente che abbiamo indicato insieme con il consueto percorso democratico: il compagno Vincenzo Greco, attualmente segretario della CGIL di Milano che ci sta ospitando. Conosco e stimo Vincenzo, un compagno che ha l’esperienza sindacale, i valori e la cultura per rappresentare al meglio e dare continuità al nostro collettivo. Al compagno Vincenzo Greco, che concluderà questa assemblea, posso solo dire che avrà un compito impegnativo, e che potrà continuare a contare su di me, su di noi come io ho potuto contare su di voi, su compagne e compagni che stimo e ai quali voglio bene, che mi hanno sorretto, aiutato in questi anni non facili, pieni di soddisfazioni e di delusioni, di rabbia, di amarezze e di felicità.
Come sapete appartengo a una generazione cresciuta nella contestazione al sistema di potere e al conformismo, in anni in cui si credeva che ribellarsi fosse giusto, che la verità fosse rivoluzionaria. Lo penso ancora, per questo parlando a voi oggi non ho intenzione di tacere né di rimuovere nulla. Non ho il dovere del politicamente corretto e rivendico il diritto di ricordare, di non dimenticare.
Prima di tutto voglio ricordare chi ci manca, le compagne e i compagni con cui ho attraversato una gran parte della mia militanza sindacale e politica. Li abbiamo persi per il naturale avvicendarsi della vita, ma restano con noi, ci accompagnano ancora perché sono stati compagni di strada con cui siamo cresciuti umanamente, sindacalmente e politicamente, con cui ho, abbiamo, condiviso passioni e valori, fatiche, delusioni e conquiste. È un elenco che purtroppo si allunga, ed è impossibile nominarli tutti. L’ultimo che ci ha lasciato improvvisamente pochi giorni fa ci mancherà particolarmente: è il compagno Mario Marturano, un sindacalista dalla serietà proverbiale, lavoratore per trent’anni all’Enel, un comunista orgoglioso di esserlo ancora; lo ricordiamo con affetto insieme alle compagne e ai compagni della Puglia, ed esprimiamo vicinanza alla sua famiglia.
Care compagne, cari compagni, è finita un’epoca e ne è iniziata una nuova che stanno scrivendo, gestendo altri, non certo l’Europa. Ieri eravamo “vassalli felici”, domani, se non si cambierà radicalmente questa Europa, lo saremo ancor di più degli USA di Trump.
La propaganda, la mistificazione, la menzogna non reggono più, la verità si impone e sommerge ogni falso storico. Da qui occorre ripartire e iniziare ogni riflessione, rifuggendo dalle notizie di cronaca che non ci permettono di comprendere il passato e di guardare oltre. C’è una dimensione planetaria della sfida che abbiamo dinnanzi che non possiamo rimuovere perché avrà conseguenze sulle condizioni materiali, di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori, dei pensionati, condizionerà e determinerà il futuro delle nuove generazioni e della stessa esistenza del pianeta. La gravità delle cose non la percepisci al momento, come non sempre si capiscono gli avvenimenti storici quando accadono. Il disordine, l’instabilità regnano sotto il cielo e la situazione è grave, pericolosa, per nulla eccellente per i popoli, per gli sfruttati, i poveri, le future generazioni, per il mondo del lavoro a livello globale. Per il pianeta. Il re è nudo, l’Europa è nuda.
C’è sempre un tempo nel quale popoli smarriti vanno verso idee e risposte semplici, e uomini o donne, forti che le rappresentino. Questo è purtroppo quel tempo. In democrazia la sfiducia, la disillusione e la delusione sono devastanti. Quello che sta avvenendo in Europa, nelle nazioni che la compongono, con la crescita del consenso popolare verso formazioni naziste, razziste, nazionaliste, è il risultato di scelte e politiche fallimentari dei democratici, dei riformisti, dei liberali, chiusi nei loro palazzi, distanti dal sentire e dai bisogni di una parte consistente di popolo. Questa leadership europea, stordita quanto pericolosa, dovrebbe dimettersi. Continua a fare follie, come quella di inviare ancora armi in Ucraina per far massacrare un popolo e distruggere una Nazione, continuando a considerare ancora la Russia il pericolo mortale per l‘Europa. Si sveglino, perché siamo solo all’inizio della rivoluzione reazionaria del sistema.
Cadono i dogmi, le certezze ideologiche, le false teorie, la mistificante illusione di essere dalla parte dell’impero del bene contro quello del male. L’unica certezza è che non ci sono certezze per nessuno. Tutto è in discussione, compresa la democrazia così come eravamo abituati a viverla e pensarla. La democrazia politica e sociale che si è conquistata nel dopoguerra è a rischio. Il patto “degli anni d’oro” tra welfare e capitalismo è tramontato da tempo e non è stato colpevolmente sostituito dalle forze democratiche e riformiste, nell’illusione di essere in presenza di un capitalismo di responsabilità sociale e dal volto umano. Tutto sta cambiando repentinamente, tutto diventa possibile, anche l’impossibile.
Gli Stati Uniti stanno mostrando il loro nuovo e vero volto.
Siamo in un’altra epoca. Con la elezione di Trump tutto viene accelerato, portato alla luce nella sua crudezza. La situazione internazionale è grave e piena di incognite, ci riguarda, ci coinvolge, non possiamo sfuggire. Trump non è un pacifista né un neo-feudatario, è un neo imperialista-colonialista capo di una potenza mondiale in crisi con mire espansionistiche che vorrebbe annettere il Canada, conquistare la Groenlandia, impossessarsi del canale di Panama e del golfo del Messico, comprare Gaza deportando chi ci vive, colonizzare l’Ucraina per possedere le terre rare, controllare il mondo occidentale attraverso il potere tecnologico di Musk, occupando lo spazio con i satelliti Usa, utilizzare l’IA per impossessarsi del potere assoluto anche delle menti delle persone. Non dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale ma del suo controllo e utilizzo da parte del potere, della perversa ignoranza umana. Il nuovo Presidente è un imprenditore blasfemo che si sente unto dal signore: oscurantista, spregiudicato, reazionario, un mostro partorito dal capitalismo finanziario più conservatore, dalle lobby di potere e delle armi, dai proprietari di ricchezze e di tecnologie.
Per la prima volta dopo ottant’anni, dopo l’accordo di Yalta tra le potenze vincitrici della guerra contro il nazifascismo, potrebbero essere ridisegnate le mappe del mondo occidentale, dei suoi confini e degli stati satelliti. Siamo nell’era del nuovo colonialismo imperiale, di un nuovo capitalismo onnivoro, vorace e feroce alla ricerca del potere assoluto attraverso l’osmosi tra il potere politico e il potere finanziario, avente come faro il mercato e il profitto, gli interessi particolari a discapito degli interessi generali. È un comprensibile trauma per molti scoprire che l’America di oggi non è più la stella polare, il faro della democrazia, il guardiano del mondo che garantiva giustizia e civiltà. Non hanno le chiavi di lettura dello sconquasso senza ritorno che sta avvenendo. Non le ha più nessuno, per questo occorre trovarne di nuove utilizzando la storia e la scienza dell’analisi sulla natura del capitalismo e sulla sua metamorfosi.
La favola della più grande democrazia del mondo è finita. Gli Stati Uniti di Trump nutrono disprezzo verso la democrazia rappresentativa, parlamentare, e disconoscono ogni istituzione nazionale o sovranazionale (Onu, Oms, Ocse, l’Aja…), i Trattati, la Carta dei diritti universali, le Convenzioni internazionali, da tempo mortificate, rese senza efficacia e potere. I primi decreti firmati sono dettati da un’ideologia dittatoriale, mentre sono stati affidati incarichi nei posti chiave dell’amministrazione a reazionari, a nazisti, a negazionisti, a produttori di armi, a razzisti. I giudici, i magistrati, gli insegnanti, gli attori, gli intellettuali, tutti coloro che si sono posti in contrasto sono nemici da umiliare se non da segregare. Il ricco Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, ha ordinato ai giornalisti di scrivere solo in favore delle politiche di Trump per non essere licenziati. Siamo oltre; è stato vietato l’uso di un certo linguaggio, di termini che non prevedano solo due generi, il maschio e la femmina. Vengono chiusi i progetti di ricerca non in linea con il nuovo corso oscurantista e medievale, cambiano i libri di testo scolastici sulla storia d’America. Sono stati messi al bando istituti scientifici, licenziati ricercatori, disconosciuti e tolti dal mercato testi e volumi non graditi. Il libero pensiero non è tollerato, viene perseguito. Manca solo di bruciare i libri in strada. Aspettiamo che certi politici e Presidenti mettano tra gli oligarchi e i dittatori anche Trump. È l’oligarchia fondata sul potere assoluto, sul possesso, sul denaro. Il nuovo corso nordamericano non prevede l’Europa, che si vuole sbriciolare in Stati asserviti, ancor di più “vassalli felici”, utilizzando l’ascesa di movimenti e di partiti populisti, reazionari, nazionalisti, filonazisti e razzisti che sono, e saranno, trattati come utili idioti, compreso il nostro bimbominkia e la sorella d’Italia, Giorgia, la donna, la madre, l’italiana, la cristiana. Dovrebbe considerarsi finita l’ipocrisia delle guerre per esportare la democrazia e della presunta superiorità della civiltà occidentale. Finita l’ideologica teoria della globalizzazione liberista e del libero mercato come motori del progresso, dell’uguaglianza e della redistribuzione di ricchezza. Questo sconvolgimento tramortisce e dispera, non certo noi che mai abbiamo ritenuto gli Usa l’impero del bene. Eravamo nelle piazze non a sventolare le bandiere a stelle e strisce, ma semmai a bruciarle durante la guerra in Vietnam, quando ci fu il golpe in Cile contro Allende, quando furono orchestrate sulle menzogne le guerre in Iraq, in Afghanistan o in Siria. Non ci siamo meravigliati dell’utilizzo delle rivoluzioni arabe, del popolo curdo nella guerra contro i fondamentalisti per poi abbandonarli, come oggi si abbandona non Zelensky ma il popolo ucraino. La presidenza Trump ha rotto gli argini riportando a concretezza la natura del capitalismo e dell’imperialismo. C’è un cambio repentino di linea dell’impresa e dei nuovi industriali, delle multinazionali e delle lobby di potere. Libertà d’impresa e destrutturazione del mercato sono le risposte in atto dinanzi al nuovo mondo, non a caso uno degli obiettivi degli Usa oggi e di reindustrializzare il paese, di riportare le produzioni in casa attraverso facilitazioni fiscali e l’uso spregiudicato dei dazi e dei monopoli che, come un’epidemia, sarà fuori controllo e avrà conseguenze inimmaginabili per i maggiori esportatori come la Germania e l’Italia. Il nostro paese è il maggior esportatore di beni sanitari e di prodotti agricoli.
La storia e beffarda. Si voleva il multipolarismo e ci troviamo nel multimperialismo.
Lo scontro oggi è tra imperialismi, diversi ma uguali: impegnati in un percorso insidioso, non lineare per conquistare egemonia, controllo dei mercati e delle vie fluviali, per possedere risorse e terre rare, uranio, titanio, litio, grafite, per controllare e possedere le nuove tecnologie. Quello che non viene meno è la contraddizione tra capitale e lavoro, la lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori, tra ricchi e poveri, tra la classe lavoratrice e quella padronale. Dinanzi alla rapacità di questi imperialismi in conflitto tra loro, con contraddizioni interne e una lotta di classe mai sopita, prendono la rivincita le teorie di Marx e persino quelle di Lenin.
Il nuovo capitalismo imperialista americano è incardinato sul complesso militare-digitale che fonde gli interessi delle cosiddette Big Tech, aziende giganti della tecnologia quotate in borsa (Alphabet, Amazon, Apple, Meta e Microsoft più Space X e Palantir) e l’apparato militare e di sicurezza Usa. Una polarizzazione del potere monopolistico delle piattaforme che favorisce l’intensificarsi dei conflitti. Non a caso Elon Musk ha richiesto un accordo tra la sua Space-X e il governo italiano per accedere ai servizi satellitari a orbita bassa, Starlink, che stanno rivoluzionando il settore aerospaziale nel dominio civile e, soprattutto, in quello militare. Così si legherebbe l’Italia a uno dei principali esponenti del capitalismo digitale. Un sistema di potere economico e tecnologico che ridefinisce gli stessi contorni del capitalismo, contribuendo ad alimentare diseguaglianze all’interno e tra le nazioni. Lo Stato è dipendente dalle piattaforme che ormai controllano infrastrutture e tecnologie vitali in ambito civile e militare, basti pensare all’eventualità di un’improvvisa interruzione dei servizi tecnologici o allo spegnimento dei satelliti di Musk sull’esercito ucraino e non solo. Le piattaforme hanno bisogno dello Stato per avere supporto, mentre il colore politico diventa irrilevante: per le Big Tech quello che conta è preservare l’alleanza strategica tra capitale monopolistico e apparati dello Stato ad esso interconnessi.
La guerra stessa consolida il complesso militare-digitale e rafforza il potere economico delle piattaforme. L’Europa, anche in questo settore, è un vaso di coccio. Alla subalternità militare nei confronti degli Stati Uniti si aggiunge la dipendenza dalle piattaforme digitali. E quello di Musk è solo uno dei vari esempi. Peraltro, se l’Italia dovesse procedere con l’accordo per l’acquisizione del servizio Starlink, fornirebbe a Musk, che sta riempendo le costellazioni di suoi satelliti, un pericoloso potere di controllo e di gestione sul nostro paese. Perché la lotta di classe in questa fase è stata vinta dai ricchi che detengono poteri, ricchezze e tecnologie. Perché il tecno futurismo si sta insediando. Perché c’è un assalto eversivo alla democrazia, alle regole e alle convenzioni internazionali.
“La menzogna diventa verità e passa alla storia» e «Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato». Oggi, nell’era dello scontro tra tre imperialismi, della tecnologia e del controllo del pensiero umano e della libertà, queste enigmatiche affermazioni che si trovano nel libro distopico “1984”, di George Orwell sono di impressionante attualità.
Dentro questa nuova fase l’Europa si è sbriciolata. La globalizzazione non è stata l’internazionalizzazione degli esseri umani e delle loro lotte contro le diseguaglianze; la globalizzazione reale si è confermata come un neocolonialismo moderno che il mondo occidentale ha avviato dopo la fine della guerra fredda. Oggi c’è ancora chi pensa che l’Occidente costituito da un miliardo di persone possa ancora imporre la sua civiltà, i suoi interessi, la sua egemonia sugli altri sette miliardi di persone.
L’Ue sta subendo la più grande umiliazione della sua storia.
L’Europa dei 27 non esiste più, si è sciolta come neve al sole. Non saranno di certo un Macron o uno Starmer a rappresentarla e a ricostruirla su basi nuove. Il primo, un Presidente folle senza la maggioranza del suo popolo, che voleva mandare le truppe europee sul suolo ucraino e far esplodere la terza guerra mondiale, il secondo, Primo ministro di un Regno Unito che ha scelto di uscire dalla Ue, che è tra i responsabili del fallimento della trattativa di Pace tra Russia e Ucraina nel 2022. Due “leader” di paesi storicamente colonialisti, che hanno in comune il possesso di armi atomiche nel continente europeo e pensano di ricostruire l’Europa sulle armi, sulla costituzione dell’esercito europeo.
Quando l’Europa, la democrazia parlamentare, le istituzioni nazionali e internazionali, i governi, i poteri liberali, i partiti costituzionali non si rivelano all’altezza, quando non mantengono le promesse e tradiscono le aspettative sono possibili due risposte di popolo; o affidarsi al potere forte credendo nei messaggi semplici, o rifugiarsi nel qualunquismo, nella disillusione, nella protesta silenziosa della non partecipazione.
L’Europa politica, dei diritti, dei popoli, della Pace non esiste più da tempo, e forse non è mai esistita per l’inadeguatezza, l’irresponsabilità, la pochezza dei “leader” della classe dirigente che l’ha governata.
Questa Europa della burocrazia, della finanza, incapace di pensare, immaginare e persino pronunciare la parola Pace è morta, è stato il suicidio della politica economica e sociale avvinghiata al neoliberismo, all’austerity, agli interessi e al bellicismo Usa nella guerra per procura in Ucraina.
È una Ue che con due risoluzioni del Parlamento “falsifica la storia e segna il totale fallimento di una classe dirigente palesemente non all’altezza della drammatica sfida del tempo in cui viviamo, confermando il declino politico e morale dell’Unione”, come ha denunciato il Presidente Nazionale dell’Anpi, il compagno Gianfranco Pagliarulo che salutiamo con affetto e stima.
La storia va letta, ricordata tutta e non a pezzi.
Spetta agli storici e non all’Europarlamento, ai politici, ai Presidenti, ai politologi, ai giornalisti scrivere la storia.
L’ultima risoluzione europea, che ricalca la linea della precedente, paragona, assimila la responsabilità dell’Urss di allora e della Russia di oggi con quella nazista del Terzo Reich. Non dimentichiamo che la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, che sostanzialmente equiparava il nazismo al comunismo sulla base di una versione revisionista della storia dell’Europa, fu approvata dai parlamentari italiani del fronte progressista con la contrarietà motivata dell’allora Presidente del Parlamento, il compianto David Sassoli.
Si sono volute cancellare le responsabilità non solo dei nazisti ma anche dei fascisti italiani e di tanti collaborazionisti, in particolare dei paesi dell’est, a cominciare dall’Ucraina, come si omette la verità storica richiamando il patto di Monaco del 29 settembre 1938. Con quella risoluzione si sono voluti rimuovere totalmente i meriti dell’Urss nella vittoria contro il nazifascismo, la simbolica liberazione di Auschwitz del 27 gennaio 1945, il tributo di sangue pagato dalle popolazioni sovietiche di oltre 25 milioni di morti, e si rimuove il ruolo criminale di chi collaborò con i nazisti. Il paragone poi tra i simboli nazisti e quelli comunisti sovietici contenuto nella stessa risoluzione che chiede di vietarne l’uso è inaccettabile. Non può esserci nessuna relazione tra la svastica, i fasci littori e la falce e martello, la bandiera rossa, che hanno accumunato diverse esperienze storiche e sono stati i simboli di liberazione e di riscatto per tante generazioni e per il mondo del lavoro.
Il Parlamento europeo è stato protagonista di un’aberrante riscrittura della storia cancellando ottanta anni di verità, di studi che sono alla base dell’esistenza stessa del nostro continente. Quelle risoluzioni sono incendiarie oltre che storicamente false, e confermano la distanza siderale dalle intuizioni, dal pensiero, dai sogni del Manifesto di Ventotene.
I “leader” europei sono un’oligarchia burocratica, incapace, pronta a sacrificare il popolo ucraino, a piegarsi alle lobby delle armi, ai voleri della Nato e agli interessi degli Usa, disponibili ad aumentare del 5% il Pil per le armi come comanda Trump, tagliando spesa sociale e investimenti per il progresso e il bene dei popoli europei. Questi leader dovrebbero vergognarsi e dimettersi per ignavia, incapacità e per la responsabilità di averci portato a questo punto, di non aver fermato, come si poteva e si doveva fare, la guerra In Ucraina, mandando al macello centinaia di migliaia di giovani soldati, di cittadini. Ursula Von Der Leyen sarebbe da cacciare per insignificanza, per incapacità e per il suo bellicismo. Dopo tre anni di guerra per procura tra Russia e Ucraina, dopo un milione di morti e feriti, la distruzione di un paese, 800mila renitenti alla leva, si sente ancora il mantra della “guerra giusta” e della “Pace giusta” contro il nemico russo, l’Impero del male.
Questa infinita tragedia nel cuore dell’Europa ricade su chi l’ha voluta, cercata, preparata. La cruda verità è che i rapporti di forza e di potere contano nello scenario mondiale come in quello europeo, e che si stanno smascherando le illusioni e le demagogiche e irresponsabili teorie di una possibile vittoria sul campo militare dell’Ucraina, difensore della civiltà europea. Sappiamo chi è l’aggredito e chi l’aggressore, non siamo putiniani né pacifisti rosso bruni, come ci definiscono insultandoci gli idioti. La Pace è condizione imprescindibile per il futuro dell’Europa e dei popoli. Sappiamo che la Pace era ed è possibile, questa guerra per procura, come dimostra il tavolo di mediazione tra Putin e Trump con l’esclusione dell’Europa vassalla e del povero Zelensky, doveva e poteva essere evitata. L’incontro- scontro tra Trump e Zelensky sconvolge non solo la sostanza ma anche le forme della diplomazia mondiale. C’è stato un atto umiliante, brutale e ignobile da parte di Trump, ma per Zelensky è stato un suicidio politico. Ora l’Ucraina rischia di vedersi allontanare la Pace possibile e una più massiccia invasione delle truppe russe nel suo territorio.
Ci sono responsabilità gravi di coloro che pensavano di allargare i confini Nato, di abbaiare ai confini, per dirla con Papa Francesco, di un impero forte di 6000 testate atomiche, illudendosi stupidamente di essere ancora di fronte alla debole Urss di Gorbaciov, con cui si erano firmati e poi stracciati i patti di non allargamento della Nato ai confini russi e il non intervento nella guerra in corso nella ex Jugoslavia. La classe politica che governa la Ue è corresponsabile di una guerra nel cuore dell’Europa, di aver contribuito a far fallire gli accordi di Minsk sacrificando l’Ucraina e il suo popolo, di teorizzare l’impossibile con l’entrata dell’Ucraina nella Nato.
Con il rispetto e il riconoscimento dovuti alla rettitudine di un Presidente della Repubblica di alto profilo, custode della Costituzione esprimiamo il dissenso verso le dichiarazioni di accostamento tra Hitler e Putin, tra la Russia e il Terzo Reich. Sono state all’insegna della propaganda e storicamente false. Non lo diciamo solo noi; in questo giudizio ci affidiamo anche a uno dei più autorevoli storici italiani, al prof. Luciano Canfora, al quale ribadiamo la nostra stima e gratitudine per essere una voce fuori dal coro. Rimarca il professore come non si possa paragonare la situazione geopolitica di oggi con Monaco 1938, non essendoci assolutamente nulla in comune. E aggiunge che solo le persone in malafede, come Zelensky e certi giornalisti possono fare propaganda minacciando il pericolo di un Putin alla conquista dei paesi Baltici, cioè di paesi della Nato protetti dall’articolo 5 del trattato sul Patto Atlantico.
E vogliamo anche dire che non è vero che l’Europa ha garantito oltre settanta anni di Pace. Non dimentichiamo la guerra della Nato nell’ex Jugoslavia nel 1999, contro il parere di quell’Onu tanto richiamata quanto inascoltata oggi. L’Onu iniziò a morire da quel giorno. L’Italia del Governo D’Alema e del Vicepresidente Mattarella, in dispregio dell’articolo 11 della Costituzione, partecipò a quella guerra con i propri aerei, bombardando per tre mesi le città e i territori della Serbia.
Anche allora c’era una russofobia isterica, si bombardava la Repubblica federativa Jugoslavia pensando di distruggere la Repubblica Federativa Russa. Si cancellò la sovranità di uno Stato, la Serbia alleata con la debole Russia di Gorbaciov. Da quel giorno iniziò il declino delle Nazioni Unite e si creò la ferita mai chiusa tra l’Occidente e l’Unione Sovietica, con lo smembramento della Serbia e il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo contro la risoluzione dell’ONU n. 1244.
La guerra Nato fu ipocritamente chiamata “ingerenza umanitaria”.
Noi della sinistra sindacale, che eravamo e siamo per la Pace, per il ripristino del diritto internazionale, per il rispetto degli Stati sovrani e del diritto dei popoli ad autodeterminarsi, eravamo in piazza a contestare la scelta del governo italiano. Eravamo in contrasto anche con la maggioranza della CGIL dell’allora Segretario Generale Sergio Cofferati che, per giustificare la posizione assunta di sostegno alla guerra, coniò la formula magica della “contingente necessita”.
Il riformismo di oggi è più sinonimo di opportunismo, di trasformismo, di appiattimento alla realtà che di cambiamento. Il patrimonio di valori e principi, di civiltà racchiuso nella nostra Costituzione si è disperso. Gli inglesi hanno rivendicato la fornitura a Kiev di carri armati con proiettili all’uranio impoverito per fermare i carri russi nel silenzio dell’Europa e dei partiti riformisti, democratici. Come se non sapessero cosa provoca ancora l’uranio nell’ambiente, sui militari e sui cittadini nei paesi dove è stato utilizzato per la guerra, a partire dalla ex Jugoslavia.
Riconoscere la sconfitta, prevedibile, di Kiev e di Zelensky non è una resa che sacrifica l’Ucraina ma è determinante per la salvezza di quell’80% che ne rimane come paese neutrale.
Non esiste la Pace giusta ma la pace possibile, che garantisca la non estinzione della nazione Ucraina e la libertà del suo popolo di decidere del proprio futuro, vale a dire le basi per una Pace duratura che non deve umiliare né far vincere nessuno.
Oggi, di fronte alla possibilità di giungere a una Pace possibile per fermare la carneficina i riformisti, i democratici, i liberali, il Pd sembrano storditi, paralizzati nelle loro contraddizioni interne, in nome di un europeismo e di un euro atlantismo falliti da ricostruire. Siamo a posizioni grottesche. Il nuovo corso di Francia e Gran Bretagna è pericoloso politicamente ed economicamente per noi e per l’Europa. Parlare di inviare truppe Nato ed europee in Ucraina significa mantenere aperta la possibilità di una prossima guerra.
Si vuole passare da un’economia di guerra all’economia della guerra.
L’Italia spende 32 miliardi all’anno per la difesa. È un’altra follia della UE mantenere rigide le regole fiscali per le spese sociali, per gli investimenti, pubblici, per la sanità e la scuola pubblica, per l’industria e allentarli per quelle militari. Al Parlamento europeo ci sono dei folli. Chi sabota la Pace possibile per l’incapacità di rivedere, riadattare, innovare le proprie strategie, le proprie ideologie ai nuovi travolgenti scenari, è complice del massacro del popolo ucraino. C’è bisogno anche a sinistra, nel centrosinistra europeo, nella famiglia socialista di ripensarsi, di rivedersi, di ricostruirsi, di innovarsi, di avere altri orizzonti e progetti generali.
In Gran Bretagna la Ministra di sinistra dello sviluppo internazionale, Annalise Dodds, si è dimessa per protesta contro il governo di Starmer che vuole aumentare le spese militari e tagliare l’assistenza sanitaria a persone disperate, ai meno abbienti.
Siamo popoli, noi europei, molto connessi ma poco comunicanti. Anche la CES, scomparsa in questi anni rispetto alla guerra e all’economia di guerra, deve ripensarsi, rifondarsi, rilanciare la sua funzione e rappresentanza europeista e internazionalista e non corporativa e nazionalista. Una classe lavoratrice europea in competizione, schiacciata tra nazionalismi e corporativismi di ogni sorta è destinata a soccombere. Occorre rilanciare un’altra idea della Ue, ancorata non solo ai suoi fondamentali ideali politici e sociali, come indicavano i padri fondatori nel manifesto di Ventotene, ma anche ai documenti costitutivi, come il trattato di Lisbona, che all’articolo 21 recita “preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell’Atto finale di Helsinki e agli obiettivi della Carta di Parigi, compresi quelli relativi alle frontiere esterne”.
Dobbiamo uscire insieme, da sinistra, da questo girone dell’inferno. Perché, come scrive il Presidente nazionale dell’Anpi, “siamo quelli che l’Italia ripudia la guerra, e diventeremo quelli che l’Europa ripudia la guerra”.
Siamo militanti, compagne e compagni che hanno riempito centinaia di piazze, percorso chilometri di manifestazioni per la Pace, per l’Europa sociale e dei diritti sociali e civili, per la difesa della Costituzione e della democrazia nel nostro paese, ma per coerenza e un’etica che rivendichiamo diciamo chiaramente che la piazza del 15 marzo non è la nostra piazza. Quella manifestazione si riempirà delle bandiere blu di coloro che non sanno che Europa vogliono, di coloro che hanno contribuito ad affossarla, dei bellicisti che vogliono un’economia della guerra, dei liberisti dell’austerity, mentre noi e il popolo della Pace, inascoltati, volevamo riempire le piazze delle bandiere della Pace, per una politica e un’economia della Pace. Anche il linguaggio, le parole fanno cultura, crea coscienza individuale e collettiva. Allora riappropriamoci delle nostre parole che devono divenire concretezza, proposta e progetti. Non ripropongo qui un attuale quanto dimenticato “Socialismo o barbarie”, ma almeno si riprendano quei valori e quell’etica, quei programmi che hanno accompagnato le nostre democrazie socialdemocratiche nel primo dopoguerra.
Il nostro paese. Mi sono dilungato sulle questioni internazionali convinto che da qui occorra ripartire. Siete compagne e compagni che conoscono bene la situazione italiana; dunque, mi limiterò ad alcuni richiami generali cercando di proporre riflessioni che possano essere utili al nostro confronto collettivo. La primavera referendaria, che riprenderò poi, si svolgerà in una situazione complicata e in peggioramento, aggravata dalla crisi che avanza, dalle scelte statunitensi sui dazi e da un’Europa fallita da ricostruire. Siamo nel 2025 e si dovrebbero celebrare gli ottant’anni dalla Liberazione dal nazifascismo, presupposto della Costituzione. Sarà un anno in cui la nostra Carta costituzionale, antifascista e repubblicana, non dovrà essere solo richiamata ma difesa e applicata. A tanti decenni di distanza rimane storia anche oggi, e sta a noi decidere come vogliamo che sia onorata e non rimossa o riscritta dalla destra che ci governa. Con il governo di destra e le sue scelte, le sue leggi, la finanziaria classista, con il Ddl sicurezza si sta ridisegnando il paese. Un altro stato, un’altra democrazia. Ci stiamo avviando verso il post democrazia. Con l’idea di uno stato di polizia e l’utilizzo delle nuove tecnologie, ci avviciniamo al fantastico mondo del Grande Fratello, fatto di controllo e di repressione del pensiero critico, e necessariamente della mobilitazione per i diritti e il cambiamento. Non è però il fascismo delle camicie nere, ma quello più infido e pericoloso della privatizzazione dello Stato, della supremazia del mercato e del profitto. Un progetto che si insedia tra democrazia e autocrazia, una “democratura” o “democrazia illiberale” dell’uomo o della donna soli al comando, che si richiama a figure come Orban, Putin e Trump.
Il presidenzialismo, o il premierato, ci porta alla delegittimazione del Parlamento, alla degenerazione della nostra democrazia parlamentare e rappresentativa. L’alternativa al presidenzialismo è rilanciare il ruolo delle Camere: parlamentarismo contro presidenzialismo. L’alternativa all’autonomia differenziata è rilanciare il ruolo dello stato e la difesa dei principi costituzionali fondamentali dall’assalto delle privatizzazioni, per salvaguardare il diritto universale all’istruzione, alla salute e ad ogni bene pubblico che sia di importanza vitale come l’acqua.
Basta con la rimozione dell’allarme lanciato da tanti scienziati, e dalle Nazioni Unite sul pianeta malato che sta continuando a riscaldarsi per mano dell’uomo e a causa di un sistema fondato sullo sfruttamento dissennato delle risorse naturali e l’utilizzo dei fossili. Ci dicono che, se non si interverrà entro i prossimi dieci anni sulle emissioni di Co2, l’emergenza climatica si trasformerà in sanitaria e sociale, con desertificazioni e alluvioni. Le temperature alte e la scarsità di acqua non insegnano nulla. Se non interveniamo sul modello distorto di sviluppo e di consumo in Italia, in Europa e a livello globale avremo povertà e miseria, e le immigrazioni per fame e disperazione saranno bibliche, inarrestabili, non basterà chiudere i porti, respingere la povera gente o creare una cortina di ferro.
Il paese è sull’orlo dell’abisso e risentiremo a breve delle conseguenze della situazione internazionale, delle politiche finanziarie e liberiste di austerity di un’Europa alla disfatta. È un pericolo reale che ancora non viene percepito nella sua gravità a livello di massa. Il governo Meloni è liberista, populista, demagogico e ideologico, eversivo per la sua sottocultura reazionaria e repressiva verso i giovani, verso il dissenso, verso chi lotta e protesta, razzista, classista verso il lavoro dipendente e i pensionati, liberista e di garanzia verso il mercato e gli interessi corporativi d’impresa e delle Associazioni padronali, a partire da Confindustria. Un governo disumano, cinico verso i deboli e gli immigrati, violento e repressivo verso chi contesta e lotta, complice degli evasori e dei detentori delle ricchezze accumulate. Un esecutivo che procede nelle privatizzazioni, nello smantellamento del sistema nazionale sanitario, nell’impoverimento della scuola e dell’università pubbliche. La salute non è più da tempo un diritto di tutte e di tutti. Assistiamo alla svendita dei settori strategici, degli asset dello Stato per fare cassa, alla perdita del potere d’acquisto dei salari, al depauperamento del tessuto produttivo e all’aumento del lavoro precario e povero. È il governo del lasciar fare al mercato e all’impresa, del disconoscimento della rappresentanza sociale e degli interessi generali delle confederazioni sindacali, che ha condiviso e sottoscritto la scelta di infliggere al paese sette anni di austerità imposti dalla commissione UE. Per l’Italia, paese indebitato, in fase di recessione significa un percorso di rientro attraverso la riduzione del deficit, con tagli alla spesa sociale per 13 miliardi l’anno. Ritorna prepotentemente il tema delle mancate risorse economiche: se non si recuperano con la lotta all’evasione e all’elusione e con la tassazione delle ricchezze, con una patrimoniale, questo governo dei condoni, degli amici delle partite Iva, dei commercianti, delle lobby procederà pesantemente con le sue politiche classiste, continuando a usare come bancomat i pensionati e il lavoro dipendente. Mentre elargisce mancette e bonus condizionati nega una legge sul salario minimo. I servizi e lo stato sociale, la sanità e la scuola pubblica subiranno ulteriori tagli. Lo scontro generale è di questa portata. Riprendiamo e sosteniamo il principio che in questo dannato paese di evasori è ormai un bisogno vitale: “Pagare tutti per pagare meno”. L’intenzione del governo e della Presidente del Consiglio è di dividere il sindacato confederale attaccando la CGIL, per quello che rappresenta e per quello che sta facendo, e a questo scopo utilizza una CISL irriconoscibile, corporativa, prona al governo e pronta a ogni firma purché abbia un riconoscimento consociativo e burocratico. Noi siamo un’altra cosa. Come sinistra sindacale abbiamo contestato la tesi secondo la quale dopo la caduta del muro di Berlino sarebbero venute meno le ragioni della divisione sindacale confederale e che sarebbe stato auspicabile procedere nella costruzione del sindacato unico. Con questa Cisl filogovernativa è persino difficile fare un Primo Maggio unitario. Abbiamo avuto ragione.
Il lavoro sarà al centro dello scontro e del cambiamento. In Italia abbiamo un padronato retrivo, provinciale e una Confindustria senza responsabilità sociale, corresponsabili della deindustrializzazione del paese, della sua deriva economica e sociale. Sono i rapporti di forza sociali e politici a determinare equità e giustizia, redistribuzione della ricchezza, a determinare il salario e la qualità dell’occupazione, a superare le diseguaglianze e le povertà.
Per noi finché avremo il capitalismo sarà inestinguibile la lotta di classe, il conflitto tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori, tra ricchi e poveri, tra ambiente e profitto. Il conflitto è stato relegato in un angolo, colpevolizzato, dimenticato. Dobbiamo riprenderlo per il suo valore di motore del cambiamento e del progresso di ogni società. Sa creare egemonia culturale, consenso e partecipazione. La democrazia si nutre di ascolto, delle diversità, dei diritti sociali e civili. Senza l’entusiasmo, l’esuberanza, la carica emotiva e contestatrice dei giovani il cambiamento radicale cui aspiriamo non si realizzerà.
Con l’automazione, l’informatizzazione, le nuove tecnologie il lavoro ha smesso di essere la principale forza produttiva e i salari hanno smesso di essere il costo principale della produzione. Se la società, il sistema produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come sta avvenendo, si rompe il rapporto tra il lavoro svolto e il reddito di chi lo svolge. Il processo di accumulazione della ricchezza è sempre più creato dalla macchina e dalle nuove tecnologie, dalla massificazione finanziaria e sempre meno dalla produzione dei beni e della loro distribuzione. Come previsto da Marx, il capitale nella sua essenza è destinato a produrre merci, e beni con sempre meno operai, con meno salariati. La svalutazione della vita, la mortificazione del lavoro, lo sfruttamento e il nuovo schiavismo contribuiscono alla barbarie civile, all’arretramento culturale e civile della società. Non la rivolta generica, che comunque non la si proclama ma la si riconosce e semmai la si rappresenta. Per fermare questa deriva nazionale ed europea non bastano rivolte estemporanee e spontanee, occorre una rivoluzione sociale, culturale e politica, una visione generale condivisa, sorretto dall’azione e dall’intelligenza di milioni di persone, di donne e di uomini. Occorre un pensiero lungo e avere il coraggio di riprendere un vecchio e attuale slogan: “Lavorare meno, lavorate tutti”.
Il ruolo dello Stato moderno nato per separare il pubblico dal privato è cambiato e sta cambiando profondamente con evidenti conseguenze. L’attacco dirompente alla magistratura, alla sua autonomia e indipendenza è parte di un attacco più profondo alla nostra Costituzione, alla nostra democrazia. Se si demolisce il sistema di garanzie e della separazione dei poteri si regredisce di un secolo. Oggi più che mai tornano di attualità le parole di Montesquieu: “Ogni Esecutivo dovrebbe dare conto del suo operato in sede politica – il Parlamento – e in sede giudiziaria nel rispetto della democrazia rappresentativa, dello Stato di diritto e della Costituzione”. I magistrati hanno scioperato in massa in difesa della Costituzione, del diritto di ogni cittadina e cittadino ad una giustizia equa e giusta. Difendono un principio fondamentale non sempre garantito, cioè che la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Ma non lo è: non lo è per il deputato di FdI Delmastro condannato a otto mesi, che non si dimette perché non riconosce una sentenza giudicata da lui, dalla Presidente del Consiglio e dai suoi ministri una sentenza politica. Questo è uno sfregio all’ordinamento giuridico di una gravita inaudita contro cui ci aspettavamo un intervento forte dal Capo dello Stato, anche nei confronti di quei deputati inquisiti, impresentabili, che non si dimettono in spregio all’articolo 54 della nostra Costituzione, che afferma che quanti ricoprono cariche pubbliche, “hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Occorre mettere insieme i puntini di questo vistoso attacco alla Costituzione e alla democrazia, e vedremo che c’è un filo nero che li collega, un disegno reazionario: è il piano eversivo di rinascita democratica della Loggia P2 di Gelli.
Sono passati solo cinque anni dalla pandemia Covid. La pandemia ha avuto un impatto impressionante, non solo sul piano sanitario ed economico ma anche sulle relazioni sociali. È in atto un processo di rimozione collettiva di quel periodo, quasi a voler relegare quella drammatica esperienza nel dimenticatoio, come se non fosse mai accaduta. Non se ne parla più, ma quelle immagini – i volti mascherati, le corsie degli ospedali stracolme, la solitudine delle persone anziane, i camion dell’esercito che trasportavano bare a Bergamo – sono scolpite nella nostra memoria. Non dimentico quei quindici giorni passati in ospedale, quelle stanze piene di letti, i pronto soccorso al collasso, le tante morti di una generazione, le responsabilità. La fatica, la solitudine, le difficolta del personale sanitario, i pochi medici, gli infermieri con orari di lavoro insopportabili, le donne delle pulizie, chi garantiva un pasto, chi rigovernava le stanze e faceva i letti, tutte e tutti coloro che ci hanno permesso di sopravvivere e che oggi sono dimenticat.i Gli eroi di ieri oggi sono rimossi quando non aggrediti, e non hanno neppure il diritto a un decente contratto di lavoro. Dobbiamo ricordare perché la situazione della medicina sanitaria, della prevenzione non è migliorata, anzi, è peggiorata. La pandemia ha segnato uno spartiacque. Ci eravamo ripromessi molto. Avevamo parlato di come il nostro Servizio Sanitario Nazionale, uno dei pilastri della nostra identità collettiva, dovesse essere potenziato, modernizzato, riformato. Avremmo dovuto investire nella salute, nel benessere, nella prevenzione, nell’assistenza a lungo termine dei non autosufficienti, nella medicina territoriale. E invece, sono stati tagliati i fondi del PNRR e sono stati ridimensionati gli obiettivi, i livelli essenziali delle prestazioni. Avevamo deciso di investire sui nidi garantendone lo sviluppo anche al Sud, che stava molto più indietro. Dovevamo agire per l’inclusione sociale, ma abbiamo tagliato i fondi alla povertà, anche a quella educativa. La pandemia ha ferito la nostra società più di quanto potessimo pensare. Le conseguenze le viviamo tuttora anche sul piano dell’impoverimento delle relazioni e delle reti sociali. Ma non ce lo possiamo permettere, perché nel frattempo le disuguaglianze sono aumentate e la povertà è ai livelli massimi. Dobbiamo ricostruire quel forte senso di comunità e di solidarietà che aveva animato la collettività durante la pandemia. Non da oggi, ma da oltre quindici anni si tagliano i Fondi del SSN come evidenzia il rapporto Gimbe. Da anni milioni di cittadini, di pensionati, per i costi e la mancanza di servizi pubblici adeguati, non si curano più e non fanno prevenzione. Nel 2050, se non cambieranno le tendenze, l’Italia sarà un Paese popolato da vecchi, ma non sarà un Paese per vecchi, come oggi non è per i giovani. La Treccani ha riconosciuto efficace un neologismo: siamo il paese del “degiovanimento”. Un cambiamento demografico che, se la politica, il legislatore continueranno a rimuovere non intervenendo, comporterà serie conseguenze su tutti i piani: sociale, economico, culturale, sanitario e assistenziale. Siamo anche il paese dei falsi cattolici, che lascia affogare in mare le persone che fuggono scappando dalla guerra, dalla miseria, dalla fame, con un governo che deporta gli immigrati in Albania, che li vuole rinchiudere nei lager, che pensa di fermare l’immigrazione pagando spregiudicati sfruttatori e schiavisti, mentre rende la libertà con tutti gli onori e un volo di stato a un torturatore ricercato dalla Corte Penale internazionale dell’Aja. Sulla testa del generale Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, pende un mandato di cattura per “crimini contro l’umanità e crimini di guerra”, compresi omicidi, torture, stupri, violenze e abusi sessuali ai danni di prigionieri politici e migranti, persone bisognose della protezione internazionale e della solidarietà umana perché richiedenti asilo che hanno il “diritto alla vita”. Stavolta non abbiamo sentito richiamare i diritti umani, il rispetto delle Istituzioni internazionali, della Corte Europea, della superiore civiltà occidentale. Possiamo dirlo; il problema di questi profughi, naufraghi in cerca di una vita futura non è il colore della pelle ma la povertà. Se fossero ricchi non sarebbero stranieri in nessun paese al mondo. L’Italia del governo Meloni sceglie di cancellare più di un secolo di storia del diritto internazionale, che dalla Società delle nazioni, passando per la Dichiarazione universale dei diritti umani (stabilita dall’Onu nel 1948) arriva allo Statuto di Roma. Restituire un assassino al suo paese è una grave decisione politica che nasconde una semplice verità: quel criminale di guerra è utile ai nostri interessi perché di fatto, da anni, è diventato il nostro carceriere, ovvero colui che, dalle prigioni libiche, svolge per l’Italia un ruolo essenziale, il cosiddetto “lavoro sporco” tenendo chiusi i flussi d’immigrazione dalla Libia verso il nostro Paese.
Cutro è stata l’ennesima strage degli innocenti, commemorata senza la presenza di un rappresentante del governo. Una vergogna. Ma quegli accordi criminali, quei lager sono stati istituiti da un governo di centro sinistra e da un ministro noto per essere anche un democratico con l’’elmetto. Avremmo voluto sentire, anche in questa occasione, alzarsi un alt, una denuncia ferma da chi è custode della nostra Costituzione. Ma questo è anche il governo di una Presidente alla quale forse dobbiamo smettere di chiedere di dichiararsi antifascista, perché non lo è: usa slogan fascisti come “Dio, Patria e Famiglia”, attacca le libertà e i diritti conquistati dalle donne, porta nei consultori i “provita”, fanatici specialisti dell’orrore. È il paese dei tanti, troppi femminicidi, della violenza sulle donne. C’è ancora tanto patriarcato nella cultura e nella testa di ogni maschio, e questo ci riguarda. Dobbiamo insieme diffondere il principio della parità tra i sessi, l’eguaglianza delle opportunità, l’inaccettabilità di ogni molestia o violenza a partire dai luoghi di lavoro. Abbiamo ancora molta strada da fare sul piano culturale, non siamo immuni, non è immune la CGIL, pur avendo attivato gli anticorpi e rafforzato il suo Statuto all’insegna del rispetto delle compagne. Ma non basta l’equilibrio della rappresentanza di genere nelle segreterie, perché sappiamo che ancora oggi esistono delle discriminazioni, dei disconoscimenti che le donne fanno fatica a denunciare agli organismi interni, perché le loro denunce, se rivolte in particolare a un dirigente dell’organizzazione, non sempre vengono ascoltate e riconosciute.
I nostri referendum sociali. In questa complicata situazione in continuo movimento si dovrà realizzare quella che abbiamo definito la nostra primavera referendaria. Non sappiamo la data, ma sicuramente sarà spostata verso i mesi caldi per facilitare l’astensione. Non sarebbe la prima volta, è già successo nei precedenti referendum. Raggiungere il quorum è ancor più difficile dopo la decisione, criticabile, della Corte sull’inammissibilità del quesito più popolare sull’autonomia differenziata. Non mi dilungo in questa assemblea di dirigenti sindacali informati e formati sul valore sociale e politico dei quesiti referendari. Conquistare il fatidico quorum è un’impresa, come scalare la cima di una montagna senza attrezzature. Ma dobbiamo fare il possibile, con un surplus di generosa militanza, per raggiungere la vetta, non potendo certo distogliere energie al nostro impegno quotidiano nelle categorie, nelle camere del lavoro, agli sportelli dei servizi, perché noi non siamo il sindacato generale dei referendum, ma della contrattazione, della partecipazione, della lotta nei luoghi di lavoro e nella società e del cambiamento. Nel nostro documento presentato all’Assemblea generale CGIL abbiamo scritto: “I referendum abrogativi di leggi approvate dai governi si vincono e si perdono nella società, nei luoghi di lavoro prima ancora che nelle urne” (…) In questo contesto sociale e politico, in presenza di un governo di “dittatura parlamentare”, di contrasto al sindacato confederale, i referendum su temi e materie sociali e sindacali sono difficili da realizzare e non sono un antidoto alla deriva del paese; il referendum è uno strumento da utilizzare con attenzione e oculatezza, non essendo peraltro scontato il risultato finale”” (…) “Come Lavoro Società, aggregazione plurale di maggioranza, pur confermando le perplessità e le motivate critiche sul percorso e la scelta dell’utilizzo dei referendum sociali, votiamo a favore del dispositivo proposto e ci sentiamo vincolati e impegnati alla mobilitazione e alla realizzazione degli obiettivi che saranno decisi dall’Assemblea generale CGIL, unico luogo deputato a prendere le decisioni dell’organizzazione”.
A questo, con la correttezza di sempre ci atteniamo. La democrazia è fatta di partecipazione attiva, di impegno faticoso, di passione e di esercizio di libertà. Il raggiungimento del quorum dovrebbe riguardare tutti i partiti dell’arco costituzionale. Ma non sarà così. Giocheranno sulla mancata informazione e sull’astensione, rivendicandola come una scelta legittima. Noi non dimentichiamo che in occasione del referendum del giugno del 2003 sull’estensione dell’art.18 alle aziende sotto i 15 dipendenti promosso da noi, dai delegati e dalla Fiom, una parte minoritaria della CGIL, lo stesso ex Segretario generale Sergio Cofferati e la maggioranza del PD decisero di sostenere l’astensione. Votò circa il 26% dei cittadini, ben 10 milioni e mezzo votarono SÌ per l’estensione ma si perse, si mancò un’occasione storica. Dobbiamo fare di tutto per cogliere questa di occasione.
Un paese che partecipa ha una democrazia più forte e una civiltà più avanzata. L’astensione è la protesta di un sol giorno mentre con la CGIL, con il voto e la conquista del quorum organizziamo la protesta e la lotta ogni giorno.
Il voto non è una rivolta sociale ma un diritto conquistato da esercitare sempre. La rivolta l’hanno fatta coloro che hanno conquistato questo diritto fondamentale dopo gli anni bui del fascismo. La democrazia è concretezza, è vita materiale, è uguaglianza nelle possibilità, è universalità dei diritti sociali e civili. Il risultato finale dei referendum non segnerà la vittoria o la sconfitta della CGIL, e non determinerà il sol dell’avvenire o il baratro sociale. Questi non sono e non vanno fatti vivere come i referendum della CGIL contro il mondo, sarebbe un errore, ma sono referendum di civiltà, per i diritti di tutte e di tutti. Per la nostra e le future generazioni. Una vittoria l’abbiamo già ottenuta: abbiamo riportato al centro del confronto sociale e politico la condizione lavorativa, il valore del lavoro e dei diritti di chi lavora. Non è poca cosa. Il risultato sul merito lo avremo con i milioni di Si che indicheranno ai partiti e al governo la volontà di cancellare quelle leggi che hanno favorito, ampliato la precarietà di vita e di lavoro, togliendo la dignità a chi lavora, di superare una legge di inciviltà giuridica e umana che lascia per almeno 10 anni nel limbo milioni di persone immigrate insieme ai loro figli, nonostante vivano, lavorino, studino nel nostro paese producendo ricchezza e coprendo i vuoti lasciati dalla vistosa denatalità che investe l’Italia. Comunque sappiamo che dopo il voto referendario si aprirà il confronto in CGIL. Un confronto che per noi dovrà essere libero, di riflessione, di analisi, per riaffermare, rafforzare, innovare dentro la nuova fase la nostra confederazione, il nostro essere sindacato generale, democratico e pluralista, della contrattazione e della partecipazione. Non ci dovranno essere rese di conti né la ricerca di eventuali colpevoli in caso di non raggiungimento del quorum, non possiamo permettercelo, per noi e per chi rappresentiamo. Avremo bisogno di tutte e di tutti, di un forte senso di appartenenza e di responsabilità di ogni dirigente, di ogni iscritta e di ogni iscritto. Sono loro – andrebbe ricordato ad alcuni dirigenti con uno spiccato senso proprietario dell’organizzazione – gli unici proprietari della CGIL.
La CGIL del futuro non potrà essere burocratica, chiusa al suo interno, con un gruppo dirigente autoreferenziale, con un’idea proprietaria dell’organizzazione, poco incline all’ascolto e al confronto. Potrà essere solo unita, aperta al confronto, democratica e plurale. La CGIL è oggi l’unico sindacato generale capace di aggregare e dare risposte collettive e di ordine generale, la sua autonomia deve’essere fortemente mantenuta attraverso la capacità di elaborare proposte, di avanzare progetti e indicare soluzioni rispetto alla crisi e al futuro del Paese, nella consapevolezza che non esiste né l’autosufficienza né l’indipendenza dalla politica. Rifiutiamo la demagogia e l’antipolitica, e difendiamo il ruolo storico dei partiti e delle forme associative per la democrazia italiana. Non a caso abbiamo contribuito a respingere le riforme costituzionali di questi anni che stravolgevano l’assetto istituzionale, cambiando la natura della nostra Repubblica parlamentare per lasciare spazio a un presidenzialismo strisciante con lo svuotamento del Parlamento. La CGIL è un patrimonio storico che appartiene ai suoi milioni di iscritte e iscritte, ha retto per quasi 120 anni e reggerà per i prossimi 100 perché è fondata sui valori, la militanza e la continuità dei saperi, delle conoscenze. La CGIL è una grande organizzazione di donne e di uomini, è una scuola severa e chiede conto delle scelte e delle azioni dei suoi dirigenti. In CGIL le generazioni si riconoscono e si sostengono, sono identità, forza ed energia.
I dirigenti, i delegati, i funzionari si alternano, si scambiano esperienze accumulate, nessuno è indispensabile ma nessuno è uguale all’altro, ognuno con le sue caratteristiche rappresenta una storia, un patrimonio di conoscenza e di saperi personali e collettivi che vanno valorizzati, trasmessi e non dispersi. Allora occorre superare l’accentramento dei poteri nelle mani dei Segretari generali, la convocazione di riunioni nazionali (definite volta per volta in modo diverso: direzione o altro) che non sono previste dal nostro Statuto. È una pratica che deresponsabilizza il gruppo dirigente diffuso, e tende a riprodurre un pluralismo distorto tra strutture o gruppi di potere. Occorre evitare la balcanizzazione territoriale e categoriale: si rischia una deriva corporativa lesiva della cultura solidale e della confederalità, non rispettosa delle regole che consegnano le scelte non a una figura individuale ma a un collettivo, attraverso gli organismi esecutivi e soprattutto decisionali deputati, a partire dalle Assemblee generali della CGIL e delle categorie. Dobbiamo guardarci dentro, non rimuovere i limiti e le storture che pure ci sono se vogliamo rimanere un sindacato confederale: quella confederalità tanto richiamata ma poco esercitata. Si dovrebbe applicare quanto abbiamo deciso nelle conferenze d’organizzazione, spostare risorse e attività verso il territorio, rivedendo la verticalizzazione della nostra struttura attraverso una maggiore trasversalità e organicità tra la Confederazione e le categorie. Dovremmo riconoscere le nostre difficoltà, la stanchezza, anche la perdita di entusiasmo e di passione di una parte del nostro gruppo dirigente, di delegate e delegati. Le emergenze vanno affrontate con un’analisi veritiera su di noi, sull’inadeguatezza dinanzi a certe sfide, sulle difficoltà nel proselitismo e nel tesseramento che talvolta diventa un atto burocratico, e sulla tenuta economica e organizzativa.
Dirimente per noi la presenza nei luoghi di lavoro: è fondamentale, perciò, rafforzare e qualificare con il tesseramento la nostra rappresentatività e l’esercizio della contrattazione. Rivedere le modalità nella contrattazione e delle rivendicazioni, dando valore e titolarità di decisione alle lavoratrici e ai lavoratori, a chi vogliamo rappresentare, e dando riconoscimento, supporto e formazione alle delegate e ai delegati CGIL e alle Rsu.
Dovremmo, insieme, superare errori e limiti, ripensando al modello organizzativo troppo verticalizzato e burocratizzato, dando impulso a più inclusive forme democratiche di partecipazione, rendendo la CGIL più collegiale, più efficace e inclusiva, con lo sguardo rivolto al futuro, alle nostre iscritte e ai nostri iscritti.
Si dovrebbero ripensare, innovare le forme della rappresentanza, rivedere le modalità del nostro fare sindacato, senza recidere le radici e i valori che sono e rimangono l’essenza del nostro essere sindacato generale, democratico confederale, della contrattazione e della partecipazione. E di classe, perché le classi esistono ancora, compresa quella lavoratrice. Si dovrebbero cambiare le foglie conservando le radici, cioè, innovarsi nella struttura, nelle idee e nelle proposte, ma conservando identità, principi e valori. Si dovrebbe garantire in ogni caso il funzionamento imparziale degli organi di giurisdizione interna della CGIL, il rispetto del Codice Etico, delle nostre regole statutarie approvate al congresso, a partire dagli otto anni di carica previsti per i segretari a tutti i livelli, compreso quello del Segretario generale CGIL.
In questo quadro, mantenere le forme organizzate del pluralismo interno costituisce un valore e una ricchezza per il confronto delle idee e per la democrazia.
La nostra organizzazione non deve avere muri respingenti. È fondamentale custodire memoria, valori e saperi, ma restando aperti al confronto, alla ricerca, alla conoscenza di ciò che avviene fuori di noi, al pluralismo delle idee e alla saggezza del dubbio. La CGIL è, deve rimanere, un luogo aperto come antidoto indispensabile nel mondo che cambia, per difendere e curare la storia e le radici: non vogliamo far inaridire e morire la pianta che da 120 anni alimenta la democrazia, conquista e difende diritti per tutte e tutti.
Come referente ho sentito il dovere e il diritto di denunciare la tendenza a una deriva autoritaria, a discriminare, a non riconoscere il pluralismo organizzato e la libertà di opinione che si sta propagando nell’organizzazione. È il segno di una preoccupante debolezza, di un’evidente involuzione che non arriva a sorpresa, i prodromi li abbiamo visti in più di una realtà. Il mancato rispetto degli accordi, il disconoscimento, la discriminazione da parte di Segretari generali e delle segreterie confederali regionali e di categoria nazionali nei confronti di sindacalisti bravi e preparati, rappresentativi, di compagne e compagni che fanno riferimento alla nostra aggregazione. Abbiamo subìto e denunciato con forza quello che ho giudicato e abbiamo collettivamente ravvisato come un grave atto arbitrario, una pericolosa torsione autoritaria da parte del Segretario generale e della segreteria nazionale Flai nei confronti di un segretario nazionale. Mi riferisco, con rammarico personale, a quanto avvenuto nei confronti di un compagno, di un dirigente, Andrea Gambillara, cui è stato prima revocato, immotivatamente, ogni incarico operativo e poi è stata tolta la fiducia e il distacco della legge 300, obbligandolo senza rete di protezione al ritorno in azienda dopo vent’anni. Nella comunicazione ufficiale fatta all’Assemblea generale si legge che l’unica colpa del compagno in questione sarebbe di continuare a riconoscersi nell’aggregazione confederale di Lavoro Società. Questo ha determinato l’atto discriminatorio. Abbiamo denunciato al Collegio statutario, al Comitato di garanzia questi abusi.
Nessun Segretario generale può arrogarsi la facoltà di decidere sul diritto e sull’opportunità di organizzarsi, riconoscersi collettivamente all’interno delle regole statutarie e dei principi valoriali che ci siamo dati. Se questi abusi di potere passassero sarebbe a rischio la stessa natura plurale e democratica della nostra CGIL. Rimane diritto insindacabile di ogni dirigente, delegato e iscritto decidere come e con chi organizzarsi e riconoscersi nell’ambito delle regole statutarie. Il pluralismo, anche organizzato, è e rimane un collante che rafforza la natura confederale e nello stesso tempo è un antidoto alle pratiche accentratrici e burocratiche distorcenti e dannose per la nostra organizzazione. Non può essere considerata una questione che riguarda una singola categoria.
Riguarda il Segretario generale e la segreteria nazionale CGIL, che sono garanti del rispetto della democrazia e delle regole statutarie. Qui siamo alla perdita di senso e di valori della nostra organizzazione. In un momento in cui ci sarebbe bisogno di unità e di ogni militante, si caccia via un dirigente. Non è tollerabile, in un sindacato che professa la sua democrazia e la sua pluralità e afferma con orgoglio che in CGIL non esiste un uomo o una donna al comando. La nostra battaglia per essere pienamente rispettati e riconosciuti nella nostra CGIL per quello che siamo, per la nostra storia e anche per il nostro contributo decisivo nella formazione del gruppo dirigente che oggi ha in mano le redini dell’organizzazione non si fermerà. A proposito di memoria, forse va ricordato il contributo significativo di Lavoro Società nel congresso in cui si è deciso l’elezione dell’attuale Segretario Generale CGIL e il sostegno che ha ricevuto da noi in tutti questi anni.
Ma sappiamo che la riconoscenza non alberga troppo nella nostra organizzazione, mentre dovrebbe valere almeno il riconoscimento. Esprimo, penso a nome di tutti voi, gratitudine e umana solidarietà al compagno Andrea Gambillara, per la dignità e la determinazione dimostrate nel difendere la sua persona e il suo diritto di continuare a essere un compagno che fa riferimento al nostro collettivo. Non potendo essere presente all’assemblea, è collegato e interverrà per un saluto. Ma vorrei esprimere solidarietà e vicinanza anche a Frida Nacinovich, che oggi è qui tra noi. La compagna, la brava giornalista che conosciamo per gli articoli e le interviste che leggiamo sui nostri periodici, è stata discriminata per la sua vicinanza ad Andrea e a noi, gli è stato imposto di non scrivere più sui nostri periodici ed è stata costretta a licenziarsi dalla società che l’aveva assunta, dopo mesi di mobbing e due lettere di richiamo firmate dalla stessa persona che ricopre contemporaneamente la carica di Segretario generale della Flai e di Presidente della suddetta società Srl di cui la Flai è proprietaria unica. Ci chiediamo se tutto questo sarebbe potuto succedere senza una consapevole copertura nazionale.
Infine, parliamo di noi.Appartenere alla sinistra sindacale non è stato mai facile in un’organizzazione di massa e burocratica come la CGIL, ma, di regola e per la maggior parte delle compagne e dei compagni, molti storicamente delegati e provenienti dai posti di lavoro, la sinistra sindacale organizzata, da Essere sindacato, Alternativa sindacale, Cambiare Rotta ad oggi non è stata un treno su cui salire e scendere secondo convenienza e opportunismo. Siamo una sinistra sindacale con l’ambizione di divenire punto di riferimento di classe in una CGIL che per esistere può essere solo accogliente, aperta al confronto, al riconoscimento delle diversità, unita, democratica e plurale secondo l’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio: “la nostra organizzazione – diceva – è costruita sulla democrazia, sulla libertà di espressione, sul rispetto reciproco di tutte le opinioni politiche e di tutte le convinzioni religiose. (….) Questa è la casa di tutti i lavoratori italiani. Ciascun lavoratore a casa sua si deve sentire a proprio agio. Questa è la casa di tutti, questa è la casa del lavoro”.
Se Lavoro Società deve esistere o meno, se la nostra esperienza deve continuare non lo decido io, non lo decide un referente, non lo decide un singolo compagno, perché nella nostra sinistra sindacale, per storia e cultura, non esiste un proprietario o un leader, donna o uomo, solo al comando. Siamo altra cosa, e abbiamo un orgoglio e un tratto distintivo che ci identifica. Facciamo i delegati, i funzionari sindacali, i dirigenti per scelta, per passione, non per convenienza. Fare il sindacalista per noi non è un lavoro come tanti. Pensiamo che in CGIL la lotta politica e le diversità di idee non debbano mai tracimare nello scontro personale, in abuso di potere, in ricatto o in mancanza di rispetto verso la dignità della persona. Siamo diversi. I nemici sono fuori e non dentro la CGIL. Non siamo un’eredità del passato ma la continuità di un’esperienza collettiva che prese forma nel convegno di Ariccia nel lontano 1984 e che ha saputo innovarsi nel tempo. Come abbiamo sempre sottolineato siamo un collettivo di idee e di pratiche, di proposte e di valori, non alternativo ma plurale, diverso ma uguale.
Come per la CGIL, non dobbiamo solo essere capaci di garantirci, di perpetuarci come una corporazione ma di rigenerarci. Lo ricordiamo a chi non ha memoria o non conosce le regole che vigono in CGIL: “Lavoro Società” non è una componente di partito, non è un gruppo di potere né una cordata, è un’aggregazione plurale che si attiene al merito sindacale, che si è costituita ufficialmente nel rispetto delle regole statutarie.
Siamo una risorsa e una ricchezza per la CGIL, una realtà fatta di dirigenti, di delegate e delegati leali e con un grande senso di responsabilità e di appartenenza, coerenti nel fare sindacato e nel dare gambe a quanto si decide negli organismi dirigenti. È sempre stato così e così continuerà ad essere, che piaccia o no a chi utilizza il potere conferitogli dalle iscritte e dagli iscritti alla nostra organizzazione con inaccettabile senso autoritario. Viviamo unparadosso, un’aggregazione di maggioranza coerente e leale trattata come un problema, una realtà fastidiosa da disconoscere. È questo disconoscimento parte dall’alto. Questo ci obbliga ad aprire una riflessione su come si sta e si starà in un’organizzazione che non ci rispetta, come ci si organizza e ci si rappresenta. Un’organizzazione, voglio ricordarlo ancora, alla quale molti di noi hanno dedicato una vita di militanza, di sacrifici, di passione. Dobbiamo difendere la nostra rappresentanza plurale e l’idea stessa di confederazione e di democrazia. Siamo per il primato della politica, del fare sindacato e non per il potere in sé. La lotta di classe esiste, purtroppo viene esercitata, senza troppi ostacoli, dalla classe padronale, dai benestanti, dai possessori di ricchezze, è politicamente ben rappresentata e ricca anche di poteri mediatici e di controllo. Per storia e militanza più del Camus dell’”Uomo in rivolta” apprezzo il Sartre di “Ribellarsi è giusto”, che ha abbracciato il marxismo e il materialismo storico. La rivolta, seppure giusta, è limitata e storicamente ha finito spesso per essere soffocata nel sangue: agisce nell’immediato, nel presente, non in funzione del futuro. Non cambia l’ordine costituito né porta a cambiamenti radicali nella forma del potere, al massimo ne cambia i rappresentanti.
Oggi ci sarebbe bisogno di una rivoluzione sociale, di una mobilitazione generale sostenuta consapevolmente dal mondo del lavoro, dalla società organizzata, dai movimenti femministi, ambientalisti, pacifisti, antifascisti. Una rivoluzione costruita, fondata su programmi, progetti, sogni e speranze con lo sguardo rivolto all’orizzonte, a un futuro migliore.
Noi rifuggiamo dalla burocrazia e dagli scontri finalizzati solo al potere, alla carica, ma pretendiamo riconoscimento e rispetto per ciò che siamo, per ciò che facciamo coerentemente come militanti della CGIL. Siamo parte integrante, pensiero critico e propositivo e risorsa della CGIL, lo ricordiamo a quanti, nel ricoprire ruoli dirigenti talvolta anche ai livelli più alti, hanno perso la memoria, la coerenza rispetto alla propria storia e la dignità come persone. Questo rattrista molto. Nel nostro impegno a ogni livello, oggi più di ieri, per la complessità dei problemi non è ammessa la superficialità, perché rappresentiamo persone, rispondiamo ai bisogni, alle ansie di milioni di lavoratori, lavoratrici, pensionati, giovani e donne che si affidano a noi, alla nostra Confederazione. Siamo radicali ma non minoritari, siamo per andare alla radice dei problemi per estirparli, perché crediamo ancora in un futuro migliore e diverso per noi e per le future generazioni. Pensiamo ancora che sinistra e destra non siano uguali, che il valore della solidarietà e dell’eguaglianza siano attuali, e che la lotta di classe sia ben presente nella società e nei rapporti sociali e di lavoro.Esistono ancora per noi le cose giuste e quelle sbagliate, il bene e il male, la democrazia e il dispotismo, il diritto e il sopruso. Odiamo l’indifferenza che, come diceva Gramsci, porta all’individualismo che è la condizione di chi non sogna un futuro migliore, di chi non spera più niente e vive per sé aspettando di morire. Noi non ci rassegniamo. Siamo altra cosa. Non vogliamo, essere solo custodi della memoria, ma vogliamo riaffermare l’attualità dell’economia politica e della lotta di classe come strumenti teorici per l’azione, per il cambiamento, per il futuro del paese. Come scriveva Seneca, “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” diceva Seneca. Noi sappiamo dove andare. Vogliamo continuare ad andare in direzione ostinata e contraria. Come aggregazione di sinistra di una Cgil plurale continueremo, con senso di appartenenza e responsabilità, a dare il nostro contributo all’elaborazione di analisi, alla linea politico-sindacale e alle iniziative di lotta e mobilitazione necessarie della nostra Organizzazione.
Infine, in questa ultima introduzione concedetemi una personale riflessione
Care compagne, cari compagni, come sapete ogni cosa finisce, la mia responsabilità di referente nazionale finisce qui. Dopo tanti anni di impegno e di responsabilità, di preoccupazioni, di soddisfazioni e di delusioni, di rotture politiche e personali che ancora mi pesano, permettetemi una riflessione personale. Sono cresciuto sindacalmente e politicamente in un’altra CGIL, non migliore o peggiore, semplicemente un’altra, in un’altra epoca storica.
È passato molto tempo dal giorno in cui sono stato eletto segretario regionale della CGIL Lombardia; il Segretario generale era Susanna Camusso. Ricordo ancora la mia elezione dopo oltre trent’anni di azienda e venti da delegato: la preoccupazione, l’ansia di non essere all’altezza, di non farcela a ricoprire quel ruolo di responsabilità. Per me fare il sindacalista a tempo pieno è stata una scelta consapevole, non è mai stato e mai sarà un lavoro come gli altri, e questo penso che valga per ognuno di voi. Una scelta di vita che si alimenta ogni giorno con l’esperienza, la conoscenza, la pratica, lo studio, la passione.
Sembra ieri quando da ragazzino timido ho fatto il primo incontro con il mondo del lavoro e il sindacato. Poco più di quindici anni, un bambino, mi sono presentato per un colloquio di assunzione nell’azienda di telecomunicazioni Autelco, divenuta poi GTE, Siemens e poi Italtel. Quella mattina l’entrata in azienda era bloccata da persone che mi chiesero dove stessi andando.
Era un picchetto sindacale, perché quel giorno c’era lo sciopero per il contratto dei metalmeccanici: era novembre del 1969. Alcuni di quei sindacalisti non mi hanno perso di vista, avevano un compito, e dopo tre mesi dalla mia assunzione avevo in tasca la tessera sindacale della FLM, che tanti di voi neppure conoscono. Tre anni dopo, finita quella straordinaria esperienza di unità sindacale dei metalmeccanici, avevo in tasca la tessera della Fiom CGIL. Quelle persone, quei delegati, quei dirigenti di fabbrica sono stati maestri di vita, di umanità, di crescita sindacale e politica, di qualcosa che mi accompagna ancora oggi. Da loro ho imparato il mestiere del delegato; come studiare e capire la fabbrica, come costruire una piattaforma, come fare una trattativa, come portarla avanti e quando e come chiuderla.
Come rapportarsi a chi rappresenti. Anni duri di fatica e di impegno, di lavoro, di studio serale per un diploma, poi la frequentazione di corsi universitari sul diritto del lavoro, sulla sicurezza e l’ambiente, utilizzando la grande conquista sindacale delle 150 ore. Anni duri di lunghi scioperi per il contratto nazionale e aziendale, di scontri di piazza, di picchetti e di denunce penali per blocco delle merci, occupazione di suolo pubblico, di interruzione della produzione, ma carichi di passione, di entusiasmo e di conquiste. Poi gli anni 90 della dura contestazione di piazza contro gli accordi sulla scala mobile, la nascita del movimento dei consigli, la promozione dei referendum, gli incontri con tre Presidenti della Repubblica, la militanza in CGIL sempre nella sinistra sindacale, da Essere Sindacato sino ad oggi con Lavoro Società. Poi il travaglio, le rotture personali nella nostra area, le
a responsabilità di mantenere una aggregazione organizzata, il peso, la difficoltà nel ricoprire il ruolo di referente nazionale che mi è stato assegnato collettivamente.
In “Lavoro Società” ha prevalso sempre, e deve continuare a prevalere il noi e non l’io.
Non so se sono stato all’altezza della responsabilità da voi assegnata per tanti anni, se le scelte che anche in solitudine ho fatto sono state adeguate e giuste. Posso solo garantirvi che nelle decisioni, non sempre facili, non ho avuto riguardo per gli amici e non ho seguito le convenienze. Sono stato dalla parte delle compagne e dei compagni che hanno subito disconoscimenti, discriminazioni, l’arroganza e l’insulto maschilista in qualche caso anche da parte di segretari generali senza dignità, pur avendo fatto parte della nostra storia. Mi sono sempre aggrappato a quei valori sui quali sono cresciuto, alla coerenza dell’agire e al rispetto verso ogni compagna e compagno, verso voi che rappresentate ancora oggi la ragione per continuare a fare sindacato, a esserci. Sicuramente ho commesso errori e fatto dei torti a qualcuna o qualcuno, e di questo mi scuso.
E vorrei dirvi che anche nei momenti più difficili, di scoramento, di voglia di abbandono mi sono affidato a molti di voi, a chi oggi non c’è e mi manca, alla solidarietà tra compagni e anche all’amicizia. Ho retto perché sapevo di essere referente di una aggregazione non solo di bravi compagni, ma di belle persone. Questo collettivo è sempre stato il mio punto di riferimento e sono certo lo sarà anche per il compagno Enzo, che da domani ricoprirà questo incarico in una situazione difficile per il nostro collettivo, in una CGIL che dovrà attraversare il mare in tempesta.
Infine, oltre a ringraziare ognuno e ognuna di voi, permettetemi un ringraziamento particolare a due dirigenti sopravvissuti con me con cui ho vissuto e condiviso la mia militanza di sinistra sindacale da sempre; compagni a cui devo, dobbiamo molto.
Un grazie particolare al compagno Poldo per la sua conoscenza in politica estera, per l’attenzione riflessiva, anche pungente quando necessario, senza il quale non avremmo potuto garantirci “Sinistra Sindacale”, un periodico prezioso, ricco, bello reso possibile anche per l’impegno di Mirko e di giornalisti come Riccardo Chiari che saluto, di Frida, e di tanti altri.
Un ringraziamento al compagno “formaggino”, Andrea Montagni. Lo conoscete per la sua bravura e la saggezza, la riflessione che sa trasmettere in ogni intervento, per la sua rettitudine da militante CGIL e della sinistra politica.
A lui devo molto perché nei momenti cruciali ha saputo dove stare e con chi stare, consapevole delle rotture che questo avrebbe comportato in Toscana e a livello nazionale.
Siamo militanti che hanno coscienza, responsabilità, passione, e la capacità di vedere, di ascoltare, di capire e di agire, di indignarsi e di non rassegnarsi. Il nostro colore non dobbiamo sceglierlo, lo portiamo addosso e nel cuore: è il rosso, il colore della lotta e del riscatto, della giustizia. Il colore delle nostre bandiere e del quadrato simbolo della CGIL. Un colore che per noi va bene in ogni stagione, su ogni compagna e su ogni compagno.
Per concludere vorrei salutarvi con le parole di Rosa Luxemburg, che pensando al mondo di domani, quello per cui lottiamo lo definiva “Un mondo dove siamo socialmente uguali, umanamente differenti e totalmente liberi”.
Grazie per quello che siete e quello che fate. Non perdiamoci di vista. Vi voglio bene.