Nonostante l’espandersi della flessibilità dei rapporti di lavoro subordinato, è aumentata la irregolarità imprenditoriale nel trattamento dei dipendenti. L’incremento del profitto dell’impresa e della disuguaglianza di potere negoziale tra le parti dimostra come la formula ‘più flessibilità=meno lavoro nero’ sia stata, nei fatti, del tutto smentita. Basti pensare che nel settore agricolo, in cui vi è il massimo livello di flessibilità e precarietà, vi e anche massimo il livello di lavoro nero.

Sul piano sociologico si assiste al processo di ‘reificazione’ del lavoro umano, soprattutto manuale ma anche intellettuale, in cui il prestatore d’opera è considerato e trattato dalla controparte alla stregua di una ‘cosa’. Correlativamente, sul piano giuridico, si propone un tema di grande interesse: la schiavitù cioè la ‘condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi’.

E’ doveroso fornire ai sindacati alcuni strumenti conoscitivi e operativi, per autotutelarsi e/o per sollecitare il sapere e l’intervento dello Stato in una situazione economico-giuridica lontana anni luce da quella costruita dalla Resistenza e scolpita nella Costituzione.

Nelle sentenze della Corte di Cassazione sui lavoratori sfruttati sono efficacemente rilevate l’evoluzione e la continuità della figura sociale del ‘servo della gleba’ cioè del manovale, del bracciante stagionale, dell’‘eterno’ precario; sono cioè illustrati con estrema fedeltà alla Costituzione gli elementi costitutivi del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, ex art. 600 codice penale (v. Cass. Pen. sez. III del 26 ottobre 2006).

In entrambe le ipotesi, è commesso il più importante delitto contro la personalità e la dignità individuale del lavoratore, delitto che paradossalmente risulta il meno contestato e punito nelle aule penali. La terza sezione della Suprema Corte osserva: “Il legislatore ha definito ‘schiavitù’ seguendo la nozione prevista dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra del 25.10.1926, ratificata con r.d. 26.4.1928 n. 1723, secondo il quale ‘la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi’”.

Un caso significativo di reificazione umana, cioè di un prestatore d’opera trattato alla stregua di una cosa contenuta nel patrimonio aziendale, è stato accertato dalla Corte d’Assise di Lecce nella sentenza 13.7.2017: nella campagna di Nardò, in caso di malessere di un manovale, “se il lavoratore era regolare doveva sempre chiedere al caporale di essere accompagnato al Pronto soccorso e … c’era un pagamento, gli veniva tolto dallo stipendio il costo del tragitto … Se il lavoratore non era regolare il caporale non lo portava nemmeno, perché aveva timore a dire ‘questo lavora con me’ o magari lo lasciava lontano dal pronto soccorso”.

La tipologia di lavoratore infortunato e abbandonato come cosa inservibile e dannosa è dimostrata dal mostruoso trasporto di ‘pronto soccorso’ di un bracciante indiano, Satnam Singh, abbandonato, nell’Agro Pontino, agonizzante il 19 giugno 2024 con un braccio troncato nella cassetta degli ortaggi; l’infortunato è poi morto dissanguato. Da questa reazione padronale emerge l’avvenuta e tacita degradazione del lavoratore gravemente infortunato a ‘cosa’ inservibile e nociva, di cui liberarsi tacitamente e clandestinamente.

Nel nostro ordinamento – in difesa del lavoratore sfruttato – è stato introdotto, con l’art. 600 c.p., anche il delitto di riduzione o mantenimento in servitù, costituito dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative (es. servitù per debiti)… o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, approfittando di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Lo stato di servitù coincide con quella ‘posizione di vulnerabilità’ (situazione in cui la persona non ha altra scelta se non cedere all’abuso di cui è vittima (vedi direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo art. 2 § 2, che è inoltre indicata nella decisione quadro della Ue 2002/629/GAI del 19.7.2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, alla quale la legge 11.8.2003 numero 228 ha voluto dare attuazione).

Proprio sotto il profilo della fondamentale libertà psichica del lavoratore, la Corte di Assise di Lecce, nella citata sentenza del 2017, ha riconosciuto la legittimazione della Federazione provinciale Lavoratori Agro-industria Cgil, e della Camera del lavoro territoriale Cgil a costituirsi parte civile nei confronti dei responsabili dei reati di riduzione in servitù e di intermediazione illecita. La corte ha infatti affermato che il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro, intese in senso ampio e, dunque, non strettamente riconducibili ai profili economici della prestazione lavorativa.

E’ compito del sindacato quindi proteggere i diritti primari del lavoratore, fra cui vanno compresi – oltre a quelli inerenti la vita e la salute – le libertà fondamentali. Ne deriva che, ove tali diritti primari siano lesi da fatti costituenti reato, vada riconosciuta, oltre che al lavoratore, anche al sindacato la legittimazione a costituirsi parte civile, derivando da quei fatti la lesione di un diritto proprio del sindacato medesimo. Tanto più che la normativa vigente (articolo 9 legge 300/70; T.U. n. 81/08) riconosce alle organizzazioni sindacali un ruolo pregnante in riferimento alla tutela delle condizioni di lavoro, ruolo che deve ritenersi vieppiù ribadito in riferimento ad imputazioni gravissime quali la riduzione in schiavitù e in servitù.

Il riconoscimento ai lavoratori extra-comunitari di salari minimi come compenso di gravose prestazioni crea, secondo la corte, un’oggettiva alterazione del mercato del lavoro e un ostacolo di accesso ai lavoratori italiani, legittimando la costituzione di parte civile del sindacato, anche sotto questo ulteriore profilo.

Ci troviamo quindi a dover prendere atto della capacità della politica neoliberale di approfondire la disuguaglianza di potere negoziale e patrimoniale tra i lavoratori, e di contrapporre gli ‘ultimi’ agli ‘ultimissimi’.