Lo scorso 3 febbraio un pirata della strada ha ucciso il sociologo marxista Michael Burawoy.

Nella sua lunga carriera di sociologo si è occupato molto anche di lavoro, in particolare nel libro “Manufacturing Consent: Changes in the Labor Process under Monopoly Capitalism”, dove riformula la teoria di Braverman sul controllo del lavoro. Burawoy adotta una prospettiva marxista per mostrare come il controllo capitalistico della produzione non viene imposto esclusivamente attraverso la coercizione, perché fa ricorso anche a forme di consenso generate nel luogo di lavoro. Il processo lavorativo è strutturato per celare e garantire l’estrazione del plusvalore, trasformando i lavoratori in partecipanti attivi alla propria subordinazione.

Burawoy giunse a queste conclusioni attraverso un’analisi etnografica delle fabbriche negli Stati Uniti, che gli consentì di capire come la struttura del mercato interno del lavoro e le pratiche lavorative informali fossero strumenti per organizzare il consenso dei lavoratori, e allo stesso tempo distoglierli dalla consapevolezza della propria posizione di classe. Queste pratiche, infatti, generavano competizione tra i lavoratori e l’identificazione con gli interessi dell’impresa.

In questo modo veniva impedita la formazione di una solida solidarietà di classe, mentre i lavoratori facevano proprie le ideologie funzionali alla giustificazione del profitto come figlio del rischio d’impresa, e non come il risultato dell’estrazione del plusvalore.

In queste analisi ha un ruolo di primo piano il concetto di mercato del lavoro interno. Se quello esterno opera attraverso la concorrenza tra imprese e lavoratori, quello interno viene regolato da norme burocratiche e promozioni basate sull’anzianità. Burawoy sostiene che questo sistema di avanzamento, sorto per stabilizzare la forza lavoro senza eliminare completamente la concorrenza tra i lavoratori, rende il lavoratore dipendente dall’impresa e incline ad accettare le sue regole, rafforzando i meccanismi di consenso.

Un altro concetto chiave nelle analisi di Burawoy è l’idea dello “stato interno”, cioè un insieme di istituzioni e pratiche che riproducono all’interno dell’impresa dinamiche tipiche dello Stato, come sistemi di giustizia industriale e relazioni sindacali, utili a legittimare l’autorità manageriale e a mediare i conflitti in modo che non sfocino in una lotta di classe aperta. Questa dinamica è ricondotta alle teorie di Antonio Gramsci sull’egemonia, sottolineando come il capitalismo avanzato sommi alla coercizione la costruzione di un consenso attivo tra i lavoratori. Le possibilità di resistenza da parte dei lavoratori nascono a partire dalla forte instabilità di queste dinamiche produttrici di consenso.

Questo approccio era in stretta sinergia con la teoria delle classi elaborata dal suo amico Erik Olin Wright, con cui instaurò un lungo sodalizio intellettuale con l’intento di costruire un marxismo sociologico scientifico e critico allo stesso tempo. Buroway sfruttò la teoria delle utopie reali di Wright, cioè alternative socialiste reali e praticabili all’interno del capitalismo, per ampliare la sua idea di sociologia che non si limita a fare accademia perché si impegna attivamente nelle lotte sociali e nella costruzione di modelli di società alternativi. Nel pensiero di Burawoy la sociologia è una costante tensione tra utopia ed anti-utopia. L’utopia serve per immaginare futuri alternativi, mentre l’anti-utopia individua i limiti imposti dalle realtà sociali.

Una simile tensione è presente in tutti i classici della sociologia. Per esempio in Marx il pensiero utopico si incarna nella sua visione del comunismo come superamento dell’alienazione e dello sfruttamento, mentre l’anti-utopia è rappresentata dalla sua analisi del capitalismo che serve a identificare tutti i meccanismi strutturali capaci di ostacolare il cambiamento.

Oggi la sociologia è stata profondamente trasformata dal neoliberismo con quella che Buroway definiva terza ondata di ‘mercatizzazione’. Il mercato non si concentra più nella semplice sfera economica ma invade tutti gli aspetti della vita sociale, università inclusa. La conoscenza è merce, e le università sono sempre più subordinate alle logiche del profitto. Tutto ciò rischia di far perdere alla sociologia la propria autonomia e il proprio ruolo critico.

Buroway propone allora una sociologia emancipatrice. Non bisogna criticare solo il presente, ma occorre individuare pratiche e istituzioni che già ora possano prefigurare un’alternativa. Per questo ci invitava a studiare cooperative, movimenti sociali, esperimenti di democrazia partecipativa e forme di autogestione, con l’intento di ampliare e rafforzare queste esperienze. La sociologia deve abbandonare l’illusione dell’oggettività neutrale riconoscendo il proprio ruolo politico, spingendo chi la pratica a prendere una posizione rispetto alle trasformazioni della società.