Nel “Libro Bianco” licenziato dal governo si legge: “La chimica, in particolare la petrolchimica, svolge per il sistema industriale di un Paese un ruolo strategico (…), poiché, veicolando l’innovazione e la ricerca contenute nei suoi prodotti a numerosissimi settori produttivi utilizzatori, ne promuove la competitività. (…) alla petrolchimica e alla presenza di fornitori di prodotti chimici sul territorio nazionale, è legata la stessa competitività del made in Italy e di numerosi distretti industriali”.

Non si comprende, allora, perché Eni abbia deciso di abbandonare la produzione di etilene e propilene, materie indispensabili non solo per l’ineludibile transizione ambientale ma anche per tutti gli altri settori dell’industria italiana, e di consegnarsi ad una dipendenza economica da altri paesi, che porterà lievitazione di costi, perdita di competitività, sacrificio di posti di lavoro, facendo aumentare peraltro i valori di Co2. E colpendo soprattutto le aree più in difficoltà del Paese.

L’8 marzo 1959 si pose la prima pietra dello stabilimento Montecatini a Brindisi. Rappresentava la realizzazione più ambiziosa della storia della chimica italiana. Brindisi offriva una serie di condizioni favorevoli di natura fisico-morfogeologica e socio-politica, oltre alle agevolazioni creditizie e finanziarie comuni a tutto il Sud.

L’insediamento petrolchimico a Brindisi si inseriva nel più ampio progetto di industrializzazione del Mezzogiorno che portò l’intero territorio ad uno sviluppo accelerato, imposto dall’alto per adeguare la realtà locale alla sfida dell’industria, con la modifica sostanziale delle proprie peculiarità economico-sociali. Da quel momento la città, ma anche la sua provincia, cambiò radicalmente volto, abbandonando l’economia rurale per quella industriale.

Molte cose sono cambiate da quel 1959 e, nonostante stagioni altalenanti di crisi e picchi produttivi, un’alternativa credibile, seria e fattibile agli oltre 1.400 lavoratori diretti e dell’indotto del petrolchimico, né Eni né il governo l’hanno realmente proposta.

Lo scorso 23 gennaio, nel pieno di una trattativa aperta fra governo, sindacati e Regioni interessate, presso il Mimit, alla luce del nuovo piano industriale di Eni che prevede la chiusura dell’impianto di cracking di Brindisi, anche dopo la formale richiesta avanzata da un rappresentante del governo di posticipo delle dismissioni, Eni Versalis decide unilateralmente di chiudere l’impianto di produzione di butadiene (P30B).

Giuseppe Ricci, responsabile “Operazioni trasformazioni industriali” di Eni, ii tutta risposta, disconoscendo qualsiasi tavolo ministeriale e sindacale, in un’intervista sul “Sole 24 ore” qualche giorno fa, ha smentito quanto dichiarato in prima battuta da Versalis ai tavoli ministeriali, dove si annunciava la fermata del cracking entro aprile e il mantenimento in servizio degli altri impianti, annunciando la chiusura anticipata a partire già da marzo.

In risposta tutte le categorie del settore industria della Cgil di Brindisi (Filctem, Fiom, Fillea, Filcams, Filt, Flai) hanno proclamano lo stato di agitazione di tutti i lavoratori della filiera, diretti e dell’indotto. Si è creato un coordinamento degli Rsu e Rsa costituito da lavoratori di diverse sigle sindacali, che in questi mesi hanno voluto ‘visibilizzare’ la condizione di lavoro dei lavoratori dell’indotto, chiedendone tutele e salvaguardia occupazionale.

La Cgil di Brindisi ha fatto una scelta di campo e il 14 febbraio scorso ha incontrato i lavoratori del coordinamento ai cancelli del petrolchimico, ribadendo, anche con momenti di tensione, che diversamente da Eni, la Cgil ha scelto di rappresentare tutti i lavoratori , dai chimici agli appalti , denunciando che i piani aziendali della partecipata dello Stato guardano solo una piccola parte e non danno risposte ai tanti che lavorano nei vari siti petrolchimici.

La vertenza rischia davvero di assumere risvolti drammatici, anche perché non c’è unità di vedute con Cisl e Uil. Serve quindi una forte guida confederale e una immediata mobilitazione che tenga insieme tutti, uniti a difesa del lavoro e contro la desertificazione dei territori.

Sì, perché i piani di Eni non sono di riorganizzazione o riconversione ma di totale dismissione degli impianti, l’abbandono di un asset strategico per l’economia nazionale, che porterà alla salvaguardia di pochi a scapito di tanti. I primi a farne le spese sono da subito i lavoratori dell’indotto, in un rapporto di tre a uno con gli addetti diretti.

Alla luce dell’arroganza di Eni e del completo asservimento del governo ai desiderata degli azionisti della partecipata, la Cgil deve essere pronta a uno sciopero generale dell’intero settore.

Sono 23 i mesi di calo della produzione industriale in Italia, e il governo Meloni invece di pensare a rilanciare la chimica di base, asset strategico, la svende e la dismette a favore dei mercati, impoverendo il Paese. Opporci alla dismissione della chimica di base italiana è un dovere e la mobilitazione, con lo sciopero nazionale di tutte le categorie, è necessaria!