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La martellante propaganda governativa batte il chiodo sul massimo livello di occupazione raggiunto a fine 2024 nel nostro paese, con sottolineature davvero commendevoli, se è vero che, per Giorgia Meloni, non ci sarebbero precedenti nella storia d’Italia dalla spedizione dei Mille.
Purtroppo la realtà è assai diversa da quella dipinta dall’ingannevole demagogia del centro-destra. Bastano pochi dati statistici per smontare una narrazione di carattere biecamente propagandistico, figlia di un ceto politico incapace e privo di qualsiasi prospettiva dignitosa per il mondo del lavoro.
Anzitutto è opportuno ricordare che a fine 2022 risultavano mancanti 800mila posti di lavoro rispetto al dato del 2007, anche per via del crollo del 34,8% degli investimenti pubblici nel decennio 2009-2019. Il pesante definanziamento degli investimenti pubblici in sanità, istruzione e ricerca, infrastrutture pubbliche, in particolare nell’ampliamento e nella manutenzione della rete ferroviaria – e non certo, invece, nella distrazione delle risorse per opere inutili, dannose e sciagurate per l’ambiente naturale come il Ponte sullo Stretto e la Tav – ha ridotto drasticamente la capacità dello Stato di soddisfare i bisogni veri della cittadinanza, generando al contempo un saldo occupazionale positivo.
In secondo luogo, nel mese di dicembre, l’Inps ha pubblicato i dati elaborati dall’Osservatorio sui lavoratori dipendenti e indipendenti relativi al 2023, che ne ha quantificato il totale in 26.618.000, compresi i 737.496 pensionati e pensionate (il 2,8% del totale) che svolgono una attività. Se non ché la media delle settimane lavorate pro-capite si attesta a 43,2, leggermente superiore rispetto a quelle del 2019 (42,9 settimane).
Se poi si considera che il reddito medio annuo pro-capite si attesta poco sopra i 25mila euro, questi due basilari indicatori al ribasso disvelano quel che sistematicamente si vuole scientemente occultare all’opinione pubblica, e soprattutto agli undici milioni di follower con cui la premier comunica direttamente, saltando l’intermediazione della stampa troppo ostile e prevenuta.
Infatti sono ben 5milioni e 770mila i lavoratori e le lavoratrici che annualmente percepiscono un reddito inferiore a 11mila euro pro-capite, per via di tutte le forme di precarietà che, dalla legge Treu del 1997 in avanti, all’insegna della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, sono state introdotte vergognosamente a dismisura. Per non parlare del vertiginoso incremento dei part-time, soprattutto per quanto concerne l’occupazione femminile, che nella maggioranza dei casi non sono figli di una scelta volontaria e consapevole.
Inoltre, se solo pensiamo alla vicenda Stellantis e quindi complessivamente dell’automotive, alle tante crisi aziendali perduranti nel tempo, tra le quali la Beko, la Candy – e in prospettiva a un ulteriore ridimensionamento del comparto dell’elettrodomestico -, nonché alla recente acquisizione della Piaggio Aerospace da parte della multinazionale turca Baykar, il futuro della nostra economia si presenta tutt’altro che luminoso, e soprattutto in affanno di fronte alle nuove gerarchie nella divisione internazionale del lavoro.
Come ha puntualmente segnalato Pierluigi Ciocca su il manifesto del 29 dicembre scorso, il calo dell’attività manifatturiera, che si protrae ormai da quasi ventiquattro mesi, è stato pari a -3,5%, a fronte di un Pil del +0,5%. In ragione di questi dati preoccupanti, anche gli investimenti in macchinari e impianti hanno segnato un vistoso -2,5%, mentre gli impieghi in beni strumentali, pari al 10%, sono addirittura inferiori all’11% dell’anno 2000.
Infine, altri segnali negativi provengono dal contesto economico internazionale, poiché il decremento del tasso di crescita del Pil conferma la tendenza alla stagnazione secolare individuata dall’economista Lawrence Summers: se nel decennio 2007-2018 il suo indicatore è stato pari al 2,7% annuo, tra il 2018 e il 2022 è sceso al 2,1%, mentre si profila il ritorno a politiche neo-mercantiliste.