L’Italia da sempre ha il tasso di occupazione tra i più bassi dell’Unione europea e, nonostante i plausi che ad ogni rilevazione dell’Istat si levano tra i laudatori a prescindere del governo, continua ad essere l’ultima in compagnia della Grecia. Ma la cosa che non si spiega è che l’occupazione cresca e al contempo il Pil, ossia la ricchezza prodotta, non lo faccia, anzi ristagni da diversi anni.

Per alcuni anni, fino al 2023 si poteva giustificare questo andamento divergente con la qualità dell’occupazione creata: precaria, sia in ragione del tipo di contratto (a termine, somministrato, part-time), sia – e soprattutto – in ragione della durata dell’impiego (intermittente, di breve durata, ecc.). Coò non è più vero da almeno due anni, ed è questo che non è facile da spiegare. Certo, c’è una variabile importante, le ore lavorate per singolo occupato, che mostra come l’occupazione complessivamente non sviluppi l’intero potenziale che potrebbe, di qui il Pil stagnante. Eppure rimane il quesito: come mai le imprese assumono, viste le prospettive non brillanti che queste assunzioni dovrebbero sviluppare?
La risposta sta nell’ultimo Bollettino economico Bce in un articolo su “Le ragioni della tenuta del mercato del lavoro nell’area euro dal 2022 al 2024”. Gli economisti della Banca centrale sostengono che alla base della “deviazione dalla legge di Okun” (che prevede che occupazione e andamento del Pil possano divergere non più dello 0,5%, nel senso che il Pil anticipa la crescita dell’occupazione!) ci sono i bassi salari e il loro mancato recupero rispetto all’inflazione, innescata dai profitti e dai beni energetici (petrolio e guerra in Ucraina).

In altre parole, le imprese avrebbero calcolato che assumere nuovi lavoratori sarebbe più conveniente dato il basso costo del lavoro e – soprattutto – la prospettiva che tale condizione permanga nel medio periodo. E dato che l’andamento dell’economia non assicura la piena utilizzabilità delle nuove assunzioni, la risposta è la riduzione delle ore lavorate che coesiste, quindi, con un aumento dell’occupazione, sfatando anche per questa via gli assunti della teoria.

E’ chiaro che questi fatti hanno una profonda conseguenza sul sindacato, e anche sulle forze che si richiamano alla rappresentanza del mondo del lavoro. Perché ne deriva la necessità di fare i conti con nodi che si sono venuti aggrovigliando negli anni, in particolare della nostra politica contrattuale.

Restando all’Italia, già le tabelle dell’Oil mostravano come il nostro fosse l’unico Paese in cui il potere d’acquisto dei salari fosse diminuito; adesso gli economisti dell’istituzione più “borghese” ci spiegano che proprio grazie a ciò le imprese si sono convinte che si può assumere! Aggiungo, tanto per non farci mancare nulla, che anche i costi di eventuali licenziamenti, se dovesse finire questa condizione d’oro per le imprese, non sarebbero esorbitanti, visto il Jobs Act e la forte compressione del rischio del reintegro…

Sarebbe quindi necessario, a mio avviso, che il sindacato tutto – e le forze politiche interessate ai destini del lavoro – riaprisse una riflessione sulle politiche contrattuali, in particolare sul venir meno – visti i dati – delle finalità cui erano indirizzati tutti gli accordi sul modello contrattuale, dal Protocollo Ciampi del 1993 alle sue diverse rivisitazioni, fino al cosiddetto Patto per la fabbrica del 2018.

In tutte queste intese, infatti, il salario definito nei contratti nazionali era indirizzato alla salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori, lasciando alla contrattazione di secondo livello la distribuzione dei guadagni di produttività. Credo che – alla luce del saggio della Bce da cui sono partito – si debba trarre la conclusione che quell’assunto non si è realizzato, il che obbliga a ripensare una strategia salariale in grado almeno di corrispondere a quell’obiettivo.

Mi faccio solo domande, vista anche la mia condizione di dirigente “non più in servizio”: come si riesce a tenere insieme la sacrosanta battaglia contro la precarietà con questa condizione di sofferenza reddituale che perdura? Non penso possa bastare la sacrosanta difesa del contratto nazionale, credo serva un ripensamento delle nostre scelte contrattuali, e spero se ne possa discutere liberamente.

Da ultimo, una nota personale: in tutta la mia vita sindacale non sono mai stato “salarialista” e ho difeso le intese volta a volta sottoscritte (e convenuto su quelle da non sottoscrivere), ma penso che ora serva una discontinuità piuttosto radicale.

(Roma, gennaio 2025)