Il governo Meloni punta a ripristinare il nucleare nel nostro paese.
Per la terza volta in cinquanta anni cittadini e cittadine saranno coinvolti in un dibattito che nelle precedenti occasioni (1987 e 2011) li ha visti schierarsi nettamente contro il nucleare. Ma sarebbe un errore pensare che anche in questa circostanza, ove mai si svolgesse un altro referendum, si otterrebbe il medesimo risultato perché, anche se le problematiche insite in questa tecnologia non sono state risolte, il contesto generale è sensibilmente cambiato e dunque è necessario che i no-nuke ne tengano conto.

In Italia le forze iniziali impegnate nella questione nucleare erano piuttosto esigue, comprendendo Democrazia Proletaria, Italia Nostra, Amici della Terra, Wwf, Partito radicale (con una posizione incerta) oltre agli “autonomi”, ai quali si deve l’aver conferito al movimento antinucleare una dimensione di massa a partire dal 21 marzo 1977, quando confluirono a Montalto di Castro decine di migliaia di manifestanti.

Per quanto mi riguarda iniziai a riflettere sulla scelta nucleare all’indomani della crisi petrolifera del 1973, essendo già all’epoca un particolare “addetto ai lavori” (responsabile del controllo sul combustibile nucleare per tutte le centrali dell’Enel, presso cui ero impiegato). Fu a seguito di quella crisi, infatti, che si inaugurò l’epoca d’oro del nucleare con centinaia di nuovi ordini in tutto il mondo, e ciò mi indusse a riconsiderare la scelta nucleare sotto il profilo delle strategie di capitale: vale a dire che il passaggio dal petrolio al nucleare, sia pure parziale, non era dovuto ad un bisogno di innovazione, ma alla necessità di mantenere il controllo del mercato dell’energia operando una ristrutturazione globale delle fonti di energia, per mezzo di una tecnologia che era detenuta esclusivamente da alcuni paesi sviluppati.

Un approccio diverso da quello ambientalista che andava ad integrarne le questioni da esso sollevate (sicurezza, scorie, etc.) mettendo a fuoco, insieme alle criticità della tecnologia nucleare, la sua onerosità sociale sia come capitale investito per addetto, sia come oneri differiti da lasciare in debito alle future generazioni.

Tuttavia le cose non furono semplici neanche allora. Dal 1976 al 1986 il movimento antinucleare fu accusato di essere antiscientifico, regressivo e senza progetto, sia da parte della stragrande maggioranza dei partiti dell’arco costituzionale, sia dai maggiori esponenti della comunità scientifica e delle stesse organizzazioni sindacali. Il Pci e i dirigenti della Fiom erano tra i più convinti sostenitori del nucleare, in quegli anni mi sono personalmente e ripetutamente scontrato con Ludovico Maschiella, consigliere di amministrazione Enel del Pci, e con alcuni segretari generali della Fiom e della Uilm.
Fu solo dopo l’incidente di Chernobyl del 1986 che iniziarono i ripensamenti che poi, con la crisi del governo Craxi nel febbraio 1987 e successive elezioni, indussero Pci e Dc a dare indicazione di votare Sì al referendum antinucleare di novembre. Nel 2011 le cose furono più semplici, stante la crisi di mercato del nucleare a livello internazionale (pochissimi ordinativi per nuovi impianti), a cui l’incidente di Fukushima inferse un colpo mortale.

Oggi la questione si ripropone in termini diversi, non tanto perché il “nuovo” nucleare abbia risolto i problemi del vecchio (sistemazione dei rifiuti, probabilità di incidenti, basso rendimento, elevati costi di investimento e manutenzione), quanto per le condizioni al contorno che sono influenzate da diversi fattori. Fra questi il più evidente è rappresentato dalla transizione energetica così come concepita dagli accordi internazionali, e in particolare nel “green deal” europeo.

L’indirizzo di abbandonare i combustibili fossili a tappe forzate ha fatto da viatico al ritorno del nucleare, assumendo forzosamente che le emissioni ad esso collegate siano prossime allo zero (ma questo è vero solo per il funzionamento delle centrali nucleari, non per l’intero ciclo nucleare). Contestualmente si è assimilato il nucleare alle fonti rinnovabili (su pressioni della Francia e della lobby nucleare) che quindi rientra nelle tecnologie finanziabili con i fondi europei. Né si può ignorare l’imponente opera di restyling che il comparto nucleare mondiale ha messo in atto per accreditare questa tecnologia presso l’opinione pubblica: il nuovo nucleare è bello perché è piccolo, sicuro, non inquina, non deturpa il paesaggio come l’eolico, occupa poco spazio e, capolavoro dei capolavori, non pretende di sostituirsi alle altre fonti di energia ma di integrarle.

Un approccio sobrio, convincente, che non a caso è penetrato trasversalmente negli strati sociali di diverse età, specie se dotati di strumenti conoscitivi (che non significa necessariamente bene informati) a cui, tra l’altro, comincia a stancare un certo tipo di ambientalismo elitario e supponente.

Il nucleare del governo Meloni

Pochi giorni fa il ministro Pichetto Fratin ha presentato un disegno di legge delega al governo in materia di nucleare sostenibile.

Dal punto di vista dei programmi di costruzione dei reattori, il ministro ha ipotizzato uno scenario niente affatto conservativo dato che si prevedono: 400 Mw elettrici al 2035; 2.000 Mw al 2040; 3.500 Mw al 2045 e 8.000 al 2050, vale a dire la messa in funzione di oltre 500 Mw all’anno in quindici anni, che costituiscono un programma assolutamente irrealistico.

Ma di quali reattori si tratterebbe? Qui Pichetto Fratin ha riproposto tutta la vulgata generalista che indica nei reattori Smr (che sta per Small modular reactors) la soluzione nuova, sicura ed economicamente vantaggiosa della tecnologia nucleare, senza mai fornire un dato numerico o quantitativo che consenta una effettiva valutazione di questi conclamati vantaggi.
Sulla reale consistenza di questi attributi degli Smr rimando per brevità a questo articolo (https://www.pressenza.com/it/2022/09/come-orientarsi-di-fronte-alla-ennesima-campagna-in-favore-del-nucleare/) per cui mi limiterò a sottolineare che l’unico progetto di Smr finalizzato a tutt’oggi, quello della società NuScale negli Stati Uniti, è fallito: partito nel 2014 con l’idea di costruire 12 unità da 50 Mw per un costo di 3 miliardi di dollari, il progetto è arrivato a costare 9,3 miliardi nel 2023 con una potenza addirittura inferiore, il che ha fatto letteralmente scappare i committenti dell’impianto.

Quanto all’iter normativo-legislativo previsto dal governo, c’è veramente di che preoccuparsi. La legge delega è composta da quattro articoli: nel primo si dà mandato totale al governo di fare i decreti attuativi entro 24 mesi dall’approvazione della legge delega senza passaggi parlamentari, ma solo nelle commissioni riunite di Camera e Senato; mandati che, peraltro, il governo può anche reiterare nel tempo.

Nel secondo articolo si mette mano a tutta la normativa esistente in materia nucleare, sia dal punto di vista autorizzativo che dei contenuti tecnologici. Le centrali nucleari diventano opere di interesse nazionale, per cui saranno soggette ad autorizzazione unica (quella del governo), fatta salva la procedura di Valutazione di impatto ambientale (non abrogabile in quanto prevista dalla normativa europea). Si introduce il concetto di “titolo abilitativo integrato” alla costruzione ed esercizio degli impianti nucleari (compresa la fabbricazione del combustibile nucleare) rilasciati dal ministero dell’Ambiente anche sulla base di abilitazioni ottenute in altri stati membri della Nea (Agenzia per il nucleare che è un organismo politico), o dell’Ocse (in pratica si tende ad una standardizzazione internazionale delle autorizzazioni tecniche per le centrali nucleari). Infine, nel mentre si prevedono sostanziali incentivi alla produzione di energia da fonte nucleare, si rimanda sine die il completamento del deposito nazionale per i rifiuti radioattivi, fatto che costituisce una seria minaccia alla sicurezza degli attuali depositi temporanei, primo fra tutti quello di Saluggia.

Da notare che la legge di iniziativa popolare “Il nucleare nel mix energetico”, con l’appoggio di Azione di Calenda, ha raccolto oltre 72mila firme con obiettivi non dissimili da quelli proposti dal governo Meloni.

Questo dunque il quadro di riferimento sintetico che ci troviamo di fronte. Un quadro che, a mio avviso, non deve essere affrontato né facendo leva sulla “paura da nucleare”, né magnificando (per contrapposizione) le energie rinnovabili, perché in entrambi i casi si rischia il rigetto per eccesso di demonizzazione e il diavolo, spesso, finisce per non apparire così brutto come lo si dipinge.

Il nucleare va descritto e criticato per quello che è: una tecnologia obsoleta, poco efficiente, complicata da gestire e soprattutto costosa, che farà aumentare il costo del kwh in bolletta sia per i costi di investimento, sia per quelli relativi allo smaltimento dei rifiuti.

Soprattutto, il nucleare rappresenta un ipoteca sul futuro delle prossime generazioni che si troveranno, loro malgrado, a gestire un lascito di cui avrebbero fatto volentieri a meno.