Il 6 gennaio scorso l’esplosione di un Ied (Improvised Explosive Device) lungo la strada Kutru-Bedre (distretto di Bijapur nel Chhattisgarh) uccideva sul colpo otto paramilitari delle forze di sicurezza che rientravano da un’operazione anti-guerriglia nella regione di Abujhmad. L’operazione condotta contro i maoisti, durata alcuni giorni, si era conclusa con l’uccisione di cinque naxaliti (veri o presunti) e la perdita di un membro della Guardia di riserva del distretto (Drg). Alla Drg apparteneva la metà dei paramilitari uccisi nell’imboscata del 6 gennaio. Quattro invece facevano parte dei Bastar Fighters, altra forza contro-insurrezionale.
Dieci giorni dopo, il 16 gennaio, arrivava la risposta, durissima. La prima impressione è stata quella di una rappresaglia. O di un faida infinita. Almeno 18 maoisti venivano ammazzati in uno scontro a fuoco tra polizia (Drg di Bijapur, Sukma e Dantewada; a cui si erano uniti vari Battaglioni di commando per l’azione risolutiva – CoBra – delle Forze di polizia di riserva centrale – Crpff), e combattenti del Primo battaglione dell’Esercito guerrigliero di liberazione del popolo.
La vera e propria battaglia, durata l’intera giornata, si era svolta nelle foreste del South Bastar, nei pressi della frontiera di Telengana (distretto di Bijapur, sempre nel Chhattisgarh). La maggior parte dei corpi, una dozzina, venivano recuperati nelle zone frontaliere delle foreste di Tumrel, Sigampalli, Pujarikanker e Malempenta. Tra i caduti, il segretario del Cpi maoista dello Stato del Telengana, Bade Chokka Rao (Damodhar).
Ma quando è stata la prima volta che ho sentito parlare dei naxaliti? Doveva essere il 1971 o il ‘72, quando, su “Re Nudo” venne pubblicata la lettera di un ex fricchettone – lo stesso che avevo portato io in Vespa fino al casello dell’autostrada – che era partito in autostop per l’India con motivazioni nobili (la meditazione, la ricerca spirituale …) e altre più prosaiche (le canne). Poi, vista la situazione, si era integrato in una delle numerose organizzazioni maoiste all’epoca presenti in India.
Appunto quella dei Naxaliti, nati qualche anno prima nel villaggio di Naxalbari (distretto di Darjeeling, Bengala Occidentale). Qui il 18 maggio 1967 scoppiava una rivolta (guidata da Charu Majumdar, Kanu Sanyal e Jangal Santhal) con qualche centinaio di contadini poveri che andarono a riprendersi le terre, i campi e le fattorie occupandole. Attaccando, armati di archi e frecce, guardie e proprietari terrieri. La ribellione durò alcuni mesi e – come da manuale – venne affogata nel sangue dalle armi automatiche dei militari. A cui si rispose con ricorrenti insorgenze anti-governative e con la nascita di un movimento di resistenza popolare armato che prese il nome dal villaggio ribelle.
Attualmente nei loro ranghi i combattenti sarebbero almeno 15-20mila, a cui va aggiunta una quantità maggiore (40-50mila) di sostenitori (la “seconda linea”), ugualmente attivi anche se armati più che altro di archi, frecce e altre armi rudimentali. La loro presenza è significativa soprattutto in Andhra Pradesh, Maharashta, Chhattisgarh e Telangana.
Tra i principali obiettivi della loro lotta le “Zone economiche speciali”, che ormai da qualche decennio il governo mette a disposizione degli imprenditori concedendo importanti vantaggi, sia di natura fiscale che nella realizzazione di infrastrutture, in genere devastanti per i territori e per le comunità indigene. Per i maoisti tali politiche economiche non sarebbero altro che “la prosecuzione del colonialismo con altri mezzi”. Inoltre, frantumando le comunità tribali, ne determinano l’espulsione o l’emarginazione. Un discorso che vale, ovviamente, oltre che per i tribali (adivasi) anche per i dalit, i cosiddetti “intoccabili”, per i contadini poveri e per tutti i diseredati dell’immenso Paese.
Prendendo qualche anno a caso, possiamo identificare con chiarezza i metodi adottati dal governo indiano per imporre tali logiche di oppressione e sfruttamento. Il 18 marzo 2019 negli scontri tra vigilantes della Vedanta Limited (filiale indiana della società britannica Vedanta Resources, proprietà del miliardario Anil Agarwal) perdevano la vita due persone – ma non si escludevano altre vittime tra i manifestanti. Gli abitanti di Rengalpali, Bandhaguda, Kothajuar e altri villaggi si erano radunati per protestare contro l’espansione, e gli inevitabili “danni collaterali”, della fabbrica di alluminio del gigante minerario nell’Odisha. In cambio chiedevano, come modesta riparazione, posti di lavoro per le famiglie sfollate a causa dei lavori di ampliamento.
Il servizio di sicurezza aveva reagito con estrema violenza al tentativo della folla di forzare i cancelli per entrare nello stabilimento. Si trattava della Odisha Industrial Security Force, una polizia ausiliaria ufficialmente alle dipendenze dello Stato, ma che agiva come milizia privata al servizio di industriali e proprietari di miniere. Un manifestante era rimasto ucciso e diversi altri feriti gravemente. Negli scontri successivi l’esasperazione degli abitanti provocava la distruzione e l’incendio del posto di guardia, anche un poliziotto perdeva la vita.
Un anno prima, il 23 maggio 2018, la polizia aveva sparato contro i manifestanti radunatisi a migliaia davanti a un’altra azienda della Vedanta, lo stabilimento Sterlite per la produzione di rame nel Tamil Nadu. Sul terreno erano rimasti 13 morti (tra cui una ragazza di 17 anni) e una sessantina di feriti. La popolazione della città di Thoothukudi chiedeva la chiusura della fabbrica, che inquinava pesantemente l’aria e l’acqua in tutto il territorio circostante. Vicende simili sono avvenute quasi regolarmente nel corso degli ultimi anni.
Gli indigeni adivasi (le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale detta anche “cintura tribale”) non rischiano di perdere soltanto linguaggio, tradizioni e identità. Molto semplicemente, nei loro confronti è in atto qualcosa che ricorda molto l’etnocidio. Da tempo infatti è in gioco la loro stessa sopravvivenza fisica. Soprattutto da quando su questi territori si è posata la cupidigia delle multinazionali, desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandum d’intesa (Mou) stipulati con il governo.
Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai Kondh e ricche di bauxite. In nome dell’estrattivismo governi e multinazionali hanno fatto strage degli adivasi. Utilizzando metodi indegni: esecuzioni extragiudiziali, stupri di donne indigene, arresti e detenzioni arbitrarie.
A danno delle popolazioni indigene non operano soltanto le compagnie minerarie. Nel 2006 suscitò scalpore l’arresto dell’eco-attivista Medha Patkar, da mesi in sciopero della fame contro il “piano Narmada” (Narmada Valley Development Project). La sua protesta era solo l’ultimo episodio di una lotta già allora lunga vent’anni contro la distruzione di centinaia di villaggi e di intere vallate e foreste. Lo sfruttamento delle risorse idriche in India aveva determinato il progetto di oltre tremila dighe sul fiume Narmada e i suoi affluenti. Si era celebrato il ventesimo anniversario dell’inizio della resistenza popolare contro questi devastanti interventi che – oltre alla dignità e ai diritti dei nativi – calpestavano ogni rispetto per l’ambiente naturale. Interi villaggi erano scomparsi sotto le acque dei bacini, mentre contadini e popolazioni tribali “scomparivano” negli slum delle metropoli, cessando di esistere come comunità. A fianco di Medha Paktar si era schierata la scrittrice Arundhati Roy, da sempre attiva in difesa dei nativi. Ma le dighe vennero completate e le popolazioni rimaste dovettero rassegnarsi a loro volta a rifugiarsi negli slum, sradicati e marginalizzati.
Tutto questo mentre i media internazionali esaltavano la “irresistibile crescita economica dell’India, della borsa di Bombay che va a mille, di una ricchezza complessiva enorme, dei ristoranti pieni e dei consumi di lusso”. Coprendo con un velo impietoso la realtà sempre più drammatica di un’India contadina e tribale. Alle commemorazioni del 2005 avevano partecipato anche i superstiti di Bhopal. Reduci da una marcia di ottocento chilometri, fino a Delhi, per chiedere la rimozione della fabbrica chimica e la bonifica del terreno. Come da manuale, la polizia li aveva duramente caricati, nonostante la marcia pacifica.
Ma, come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”. Da vari decenni la resistenza degli adivasi, dei dalit, dei contadini poveri, delle minoranze religiose, opera in sintonia con i guerriglieri maoisti del Pci-m, più noti appunto come naxaliti.
Non mancano certo “contraddizioni in seno al popolo” (per restare in clima “maoista”). Anche sinceri democratici, attivisti ambientali e pacifisti (non filogovernativi), si mostrano talvolta molto critici nei confronti delle milizie naxalite. Arrivando ad accusarli sbrigativamente di essere “persone accecate dalla ideologia, brutali e violente, sicuramente non migliori e forse peggiori del sistema che dichiarano di voler cambiare”. Non solo, talvolta il controllo che comunque esercitano sulle tribù nelle aree occupate sarebbe “ferreo e spietato”. Le contraddizioni quindi ci sono. Ma non per questo – credo – si dovrebbe buttare il bambino (la resistenza, gli ideali socialisti) con l’acqua sporca. L’esperienza del Pkk, della sua innegabile evoluzione politica in chiave democratica, libertaria, femminista, ecologista, sta lì a dimostrarlo.
Quasi dimenticavo. In anni più recenti giunse qualche notizia sul fricchettone diventato maoista in India. Dopo qualche mese, presumibilmente stremato da sanguisughe, piaghe dei piedi, umidità, fame, stanchezza e paura, aveva abbandonato il campo. Le ultime notizie lo davano in cammino, a piedi, verso il Nepal, dove se ne persero le tracce. Mi auguro che la vita sia stata buona con lui. In fondo, anche se solo per qualche mese, aveva tentato di rovesciare l’ordine ingiusto del mondo.