Ormai da diversi mesi è aperto a (e su) Milano un dibattito sulle scelte urbanistiche che sono finite nell’occhio della procura milanese. Per iniziativa della magistratura requirente sono stati sospesi i lavori in qualche decina di cantieri di edilizia civile, che sono stati posti sotto sequestro. Quello che viene contestato riguarda ipotesi di reato per abuso edilizio e danno erariale.

La scelta dell’amministrazione comunale di utilizzare (da diversi anni) procedure autorizzative tipicamente riferite alle ristrutturazioni edilizie, il cui effettivo esito riguardava il rifacimento completo (anche con demolizione totale dei manufatti) di edifici esistenti con aumenti di volumetria decisamente consistenti (tra i cantieri sequestrati ci sono realizzazioni di veri e propri grattacieli), è l’oggetto dell’inchiesta.

Un’indagine che cerca anche di far luce sull’effettivo ruolo della “Commissione Paesaggio”, attraverso la quale venivano presi in esame (e approvati) i progetti presentati. Una Commissione Paesaggio composta anche da tecnici e professionisti del settore edile che operano sul territorio milanese.

Nelle indagini sono coinvolti anche lavoratori del Comune di Milano che per ruolo, non certamente decisionale, hanno seguito gli iter amministrativi e autorizzativi delle concessioni urbanistiche. Uno degli effetti delle inchieste della procura, oltre al vivace dibattito interno al ceto politico (milanese e non), è stato quello di indurre i tecnici dell’amministrazione a non apporre la propria firma per autorizzare nuovi cantieri.

Noi non siamo né la procura né l’amministrazione comunale, però siamo portatori di un punto di vista, quello di chi rappresenta il lavoro e i suoi interessi nel territorio oltre che nei luoghi di lavoro. Quella a cui abbiamo assistito in questi anni è stata una grande operazione di estrazione di ricchezza dal territorio. I macroindicatori economici ci parlano di una città che è cresciuta grazie a un modello di sviluppo costruito sulla proliferazione di eventi di rilevanza nazionale ed internazionale, come ad esempio la settimana della moda piuttosto che il salone del mobile, organizzati in un calendario ordinato e sistematico.

Questo modello di sviluppo territoriale ha attratto milioni (nel tempo miliardi) di euro in investimenti finanziari privati nel settore edilizio e abitativo. Il bilancio sociale di queste politiche ci dà conferma di uno sviluppo territoriale ingiusto, fondato su lavoro precario e abitazioni a prezzi inaccessibili per quella fascia di lavoratori che hanno stipendi medi, figurarsi ai lavoratori precari.

L’indagine della procura ha anche prodotto un percorso legislativo in sede parlamentare, su esplicita richiesta del sindaco della città, noto come ‘salva Milano’, il cui scopo é quello di fornire l’interpretazione autentica delle norme urbanistiche, ovvero sostenere la tesi della legittimità dell’operato dell’amministrazione comunale di Milano in luogo dei dubbi che stanno alla base dell’inchiesta dei magistrati meneghini. Il decreto in discussione, nella stesura arrivata al Senato, che è differente rispetto a quella approvata alla Camera, introduce elementi insidiosi rispetto all’utilizzo delle norme urbanistiche, garantendo ampia flessibilità alle amministrazioni locali sull’interpretazione delle regole. Dal ‘salva Milano’ al ‘liberi tutti’.

Non si pone, quindi, solo la questione che investe le scelte delle politiche urbanistiche milanesi, ma si proietta su scala nazionale una rivisitazione dell’utilizzo della normativa che sarebbe fortemente suscettibile di ampie possibilità di deregolamentazione. Per questa ragione, non milanese, quel decreto è sbagliato e pericoloso.

Inoltre c’è da interrogarsi su quali siano le risposte che la politica milanese prova a dare a quanto sta accadendo, per evitare che siano le indagini della magistratura, piuttosto che il percorso parlamentare, a fare (o meno) giustizia. C’è una questione di giustizia sul piano sociale che rischia di rimanere fuori dalla porta. Le leve delle politiche urbanistiche, quando parlano di lavoro e casa, sono strumenti che possono essere messi a disposizione di un’azione di redistribuzione, cosa che ad oggi non si è registrata.

L’utilizzo e la quantificazione degli oneri di urbanizzazione, le destinazioni d’uso delle aree, il non consumo di suolo e la riduzione della cementificazione parlano alle persone che vivono del loro stipendio, che rischiano di essere solo dei pendolari perché non possono permettersi di comprare casa da 4-5mila euro al metro quadro e oltre, in una città le cui condizioni di sostenibilità ambientale risultano sempre più critiche.

Non buttiamo la croce su tutto. Ma darsi un’altra possibilità sulle politiche significa parlare di un futuro più sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, un futuro più giusto che mette al centro i diritti delle persone.