Il mandato di arresto per Osama Elmasry Njeem detto Almasri, responsabile della prigione di Mitiga a Tripoli, era stato trasmesso dalla Corte penale internazionale dell’Aja all’ambasciata italiana in Olanda nella serata di sabato 18 gennaio, e da lì trasmesso subito al ministero della Giustizia di via Arenula. Un arresto obbligatorio, visto che l’Italia è uno dei 124 paesi (fra cui tutti quelli dell’Ue) che riconoscono la Cpi, istituita nel 1998.
Almasri, scrivono i giudici nella loro sentenza, “ha picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente e ucciso personalmente detenuti, nonché ha ordinato alle guardie di picchiare e torturare”. Nel carcere da lui diretto, dal febbraio 2015, sono stati uccisi almeno 34 detenuti. E 22 persone, compreso un bimbo di cinque anni, hanno subito violenze sessuali.
Fermato dalla Digos a Torino e arrestato, Almasri è stato scarcerato con una ordinanza della Corte d’Appello di Roma, su richiesta del procuratore generale: “Si chiede che codesta Corte dichiari l’irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale; ministro interessato da questo ufficio in data 20 gennaio… e che, ad oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito”.
Insomma il ministro Nordio non si è fatto sentire e il giudice ha dovuto rilasciare Almasri, che nella serata del 21 gennaio è stato riaccompagnato in Libia con un volo di Stato italiano.
Quello che è accaduto in seguito – l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti con l’ipotesi di reato di favoreggiamento personale e peculato, e la conseguente “comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati” – non una informazione di garanzia – trasmessa dalla procura di Roma al Tribunale dei ministri competente sulle azioni dell’esecutivo, è a norma di legge un atto dovuto. Ma agli occhi della destra, da trent’anni a questa parte, ogni comunicazione della magistratura è vista come una azione eversiva.