Fra tentativi di “soluzione politica” e inasprimento della guerra in Rojava.

Sempre più difficile orientarsi in quello che Zerocalcare definiva “groviglio” mediorientale, con particolare riferimento alla questione curda. Da un lato sembrano procedere, se pure a singhiozzo, i tentativi di “soluzione politica” (vedi le visite consentite al prigioniero Ocalan, e le recenti dichiarazioni dell’ex co-presidente di Hdp, ugualmente in carcere, Selahattin Demirtaş). Ma dall’altro si intensificano gli attacchi delle milizie filo-turche e dell’aviazione di Ankara in Rojava. Non solo contro la resistenza delle Fds, ma anche contro obiettivi civili (la diga di Tishrīn, i silos del grano…). Con un crescendo di vittime.

Per ricordare solo le ultime, un’intera famiglia decimata il 10 gennaio nel villaggio di Masrab sottoposto a bombardamenti turchi. Uccisi il padre Hussein Mustafa e due figlie (Fatima Ismail Mustafa di 12 anni e Aisha Ismail Mustafa di 13 anni), mentre altri cinque bambini e la madre sono rimasti gravemente feriti. Sempre il 10 gennaio è stata uccisa Shahnaz Omar (militante storica del Movimento delle donne Kongra Star) nel villaggio di Khana Sere, ugualmente sotto i bombardamenti turchi. Senza poi dimenticare quanto avviene in Bashur (Kurdistan del Sud, nel nord dell’Iraq) e la radicalizzazione di alcune frange del Pkk.

Significativo che proprio in questi giorni su alcuni siti curdi venga resa pubblica integralmente la lettera di commiato di Rojger Hêlîn (Ali Örek) che il 23 ottobre 2024, insieme a Asya Alî (Mine Sevjin Alçiçek), si rendeva responsabile dell’assalto (sostanzialmente un’azione suicida) alla sede di Turkish Aerospace Industries (Tusaş) a Kahramankazan (a circa 40 chilometri da Ankara). Causando cinque vittime e una ventina di feriti tra il personale dell’azienda, nota per la produzione di droni. Stando a quanto veniva dichiarato, l’obiettivo dei due giovani curdi non era quello di sabotare le eventuali trattative tra Ocalan e governo turco. Ma appunto la Tusaş, in quanto “centro produttore delle armi che hanno massacrato migliaia di civili, compresi donne e bambini, in Kurdistan”.

Sempre nella sede della Tusaş, nel febbraio 20204, veniva realizzato il prototipo del supercaccia Kaan (variante dei Lockheed F35), in grado di operare sia con pilota che come drone. Inoltre la Turkish Aerospace Industries collabora con l’Italia (in particolare con Leonardo) nella produzione dell’addestratore Huriet (in versione caccia-bombardiere), dell’elicottero da combattimento T129 Atak (derivato dal Mangusta italico e, pare, fornito anche al Pakistan), e delle fusoliere per gli elicotteri AW139 dell’Agusta.

Coincidenza. Spesso il nome della località turca di Kahramankazan viene abbreviato semplicemente in Kazan. E l’attacco era avvenuto proprio mentre Erdogan si incontrava in un’altra Kazan – la capitale del Tatarstan – con Putin e una trentina di capi di Stato per il 16° vertice dei Brics.

E’ innegabile che il tragico evento aveva rischiato di far naufragare le timide aperture, le trattative in corso tra l’esponente curdo detenuto a Imrali e il governo di Ankara. Al momento pare comunque che i colloqui stiano ancora proseguendo. Tanto che la stessa delegazione del Partito Dem (Partito per la democrazia e l’uguaglianza dei Popoli) che aveva incontrato Ocalan a Imrali (Sırrı Süreyya Önder, Pervin Buldan e Ahmet Türk), ha potuto confrontarsi con Adnan Selçuk Mızraklı (ex sindaco di Diyarbakir) e con Selahattin Demirtaş, il carismatico ex co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), detenuto in un carcere di tipo F.

Ricordo che le carceri di tipo “F” sono nate circa vent’anni fa con un piano di riammodernamento dell’edilizia carceraria per risolvere il problema del sovraffollamento nelle carceri di massima sicurezza di tipo “E”. Nelle carceri di tipo “F”, più piccole, i detenuti sono rinchiusi in celle singole o al massimo di tre persone. Di fatto esposti a ogni genere di abusi (tortura compresa). Mentre le carceri di tipo “E”, per quanto sovraffollate, consentivano ai detenuti la condivisione di spazi comuni, maggiori forme di autorganizzazione e di resistenza collettiva.

Quanto al Dem, partito di opposizione e terza forza in Parlamento, sostanzialmente appoggia l’iniziativa per la liberazione di Öcalan, fondatore del Pkk, in cambio della rinuncia alla lotta armata. Come aveva proposto il maggior alleato di Erdogan, Devlet Bahceli, leader del partito di estrema destra Mhp (identificato come la “vetrina politica” dei Lupi Grigi). Proposta che non è stata rigettata da Öcalan, visto che durante l’incontro con i deputati del Dem si era detto “pronto a prendere le misure necessarie e a lanciare questo appello”.

Una posizione su cui pare essersi allineato anche Selahattin Demirtaş (in carcere dal 2016, condannato a 42 anni di prigione). Già in ottobre aveva affermato che “se Öcalan prende un’iniziativa e vuol aprire la strada a una soluzione politica, lo sosterremo con tutte le nostre forze”.

Più recentemente, in una dichiarazione pubblicata in rete dai suoi sostenitori, rinnovava il suo profondo apprezzamento sia per il partito Dem che per Abdullah Öcalan, il quale “sta compiendo grandi sforzi per una soluzione democratica e la pace nell’isola di isolamento di Imrali”. Specificando anche che “se finora si è voluto evitare di denominare tale processo, dal nostro punto di vista si tratta di un processo di ‘Democratizzazione, Pace e Fraternità’. Come soggetti che partecipano alla politica su basi democratiche e pacifiche, esigiamo e appoggiamo la fine permanente dei conflitti e della violenza. Dichiariamo di sostenere il signor Öcalan se prenderà l’iniziativa a questo proposito, quando ci saranno le condizioni”. Sottoscrivendo quando già affermato dal leader curdo imprigionato a Imrali, ossia che “la responsabilità di creare una base giuridica e politica per tale iniziativa (in riferimento, si presume, alla richiesta al Pkk di deporre le armi, nda) ricade sul governo e sul Parlamento”.

Non è del tutto chiaro a cosa ci si riferisca. Forse, azzardo, perlomeno a un’amnistia generale. Come già avvenuto in Sudafrica, Irlanda e Colombia, la scarcerazione dei prigionieri politici (anche dei combattenti) costituisce il “minimo sindacale” di una soluzione politica degna di questo nome.

“Tutto il mondo deve sapere – proseguiva Demirtaş – che ci sono buone intenzioni e che ci stiamo preparando per questo”. Ma è necessario che vengano rapidamente approntati mezzi concreti in grado di tranquillizzare l’opinione pubblica: “Disposti a garantire ogni tipo di sostegno per l’eliminazione dei conflitti che hanno causato sofferenze indicibili in questa terra consumando ogni energia del paese”.

Ovviamente – anche se dispiace dirlo – va tenuto conto che si tratta pur sempre, sia nel caso di Öcalan che di Demirtaş, delle dichiarazioni di persone detenute da anni, sotto controllo permanente e con la prospettiva di non uscire vive dal carcere. Comunque in sintonia con quanto dichiarato dai membri della delegazione che qualche giorno dopo avevano incontrato anche l’altro co-presidente dietro le sbarre, Figen Yüksekdag (condannato a 30 anni di prigione).

Per Sırrı Süreyya Önder “non devono sussistere dubbi sulla trasparenza del processo in corso (…). La pace è preziosa e non implica perdenti, tutti hanno da guadagnarci”. Stesso tono conciliante nelle parole di Ahmet Türk, secondo cui “il punto centrale è la fraternità millenaria tra turchi e curdi che è andata deteriorandosi nel corso dell’ultimo secolo. Questi popoli che hanno vissuto insieme per migliaia di anni devono ripristinare l’antica amicizia. Sono convinto che curdi e turchi hanno bisogno gli uni degli altri. Il nostro obiettivo è di costruire una Turchia capace di esportare democrazia nel Medio Oriente”.

Come conciliare questo spirito ecumenico con il brutale conflitto che si svolge nel nord-est della Siria tra i combattenti curdi, siriani, armeni, e le milizie filo-turche? Per Erdogan sembra non esserci problema, almeno a parole. Qualche giorno fa da Diyarbakır (la principale città curda in Turchia) ha rivolto un appello per cogliere l’opportunità (la “finestra”) che si è aperta con il crollo del regime di Bachar al-Assad e “porre fine una volta per tutte alla piaga del terrorismo”. Aggiungendo che “le organizzazioni terroristiche (come vengono classificate da Ankara sia il Pkk che le Ypg e le Ypj, nda) non hanno altra scelta che quella di deporre le armi, noi vi stiamo dando una possibilità di diventare autentiche organizzazioni politiche”. Che poi ci sia da fidarsi è un altro paio di maniche.

(12 gennaio 2025)