Da Santiago a Buenos Aires

E’ passato oltre mezzo secolo da quando un sanguinoso colpo di Stato trasformò il Cile in un laboratorio del liberismo più selvaggio, quello partorito dalla testa dell’economista statunitense Milton Friedman – premio Nobel per l’economia nel 1976 – e dei suoi Chicago Boys. Da allora le cose non sono cambiate, anzi negli ultimi tempi quel pensiero ha conosciuto una ancor più pericolosa deriva, insofferente ad ogni sia pure timido intervento statale in ogni settore della vita del Paese.

A fare propria questa sciagurata filosofia è da un anno a questa parte il presidente argentino Javier Milei, apparentemente un “loquito”, un “pazzarello”, un uomo stravagante ma che in realtà costituisce un vero pericolo per la tenuta democratica del Paese, se è vero che in un anno la povertà, già presente in una misura decisamente più alta che in Europa, è passata dal 41,7% al 52,9% della popolazione, salvo poi conoscere un lieve calo. Si tratta di circa 25 milioni di persone su una popolazione di oltre 46 milioni di abitanti. Una politica condivisa, tanto per cambiare, dagli investitori stranieri, dal famigerato Fondo monetario internazionale, al quale il Paese più grande di lingua spagnola deve 43 miliardi di dollari.

A poco servono le giustificazioni di Manuel Adorni, economista e portavoce della Casa Rosada, che denuncia la grave situazione economica lasciata in eredità dal precedente presidente peronista Alberto Fernandez. Al grido di “afuera”, che significa “fuori, via!”, Milei ha comunicato senza mezzi termini durante la sua campagna elettorale l’intenzione di cancellare il più possibile l’ingombrante presenza dello Stato nei settori vitali dell’Argentina, ispirandosi, come dicevamo, sia al pensiero di Friedman che a quello dell’anarco-capitalista statunitense Murray Rothbard.

Lo Stato, come sostenevano questi pensatori, deve essere ridotto ai minimi termini, lasciando alla capacità del singolo individuo di migliorare le proprie condizioni di vita, come predicava già nel ‘700 l’economista scozzese Adam Smith con il suo “laissez-faire”. Una teoria che si è dimostrata talmente fallace e inverosimile da essere paragonata, come qualcuno ha fatto, a quella dei “terrapiattisti”, con la differenza che dietro il perseverare del liberismo ci sono interessi giganteschi, per combattere i quali servirebbero soggetti agguerriti con il coltello fra i denti e non timidi tentativi, come fatto finora dalle grandi forze politiche di sinistra, di rendere più mansueto un mostro.

Come è prassi, ricette economiche finalizzate a cancellare il welfare di solito sortiscono dei risultati macroeconomici positivi, che sono quelli che contano per i grandi organismi finanziari economici internazionali, appunto il Fmi e la Banca Mondiale. Non è un caso che il settimanale inglese The Economist, che nel novembre scorso dedicò la copertina e due pagine interne al tema, abbia sottolineato con forza i vantaggi di quella scelta minimizzando i disastri sociali che provoca, definiti, come nelle guerre, inevitabili effetti collaterali.

Per Antonella Mori, responsabile dell’America Latina per l’Ispi (Istituto Studi Politica Internazionale), con esperienze universitarie presso la Cattolica di Milano, l’Università di Londra e la Bocconi di Milano, “la situazione sociale è fortemente peggiorata e la povertà è molto elevata. Inoltre i tagli drastici alla spesa pubblica in sanità, istruzione e infrastrutture non solo rendono più grave la situazione sociale attuale, ma rischiano anche di compromettere le prospettive di crescita di medio termine”.

Ma quali sono gli obiettivi del partito di estrema destra Lla – La libertad avanza? Come abbiamo detto una riduzione dell’inflazione e del disavanzo pubblico, condizioni necessarie per attirare nuovi investimenti favorendo una ripresa economica i cui vantaggi, come appunto recitano le teorie liberiste, favorirebbero tutta la popolazione. Venendo ai dati, dopo un calo della crescita nel 2024 pari al -3,5%, nel 2025 ci dovrebbe essere una ripresa che dovrebbe portare il Pil al +5%. L’inflazione su base annua pur rimanendo alta – intorno al 45% – dovrebbe comunque registrare un netto calo considerando che era del 140%.

Naturalmente con la vittoria alle presidenziali statunitensi di Donald Trump, il cui pensiero politico è praticamente lo stesso di Milei, per l’Argentina potrebbe aprirsi un periodo felice, visto il ruolo che giocano gli Usa all’interno delle già citate istituzioni economiche e finanziarie internazionali. “Armato di una motosega – ricorda Mori – Milei ha vinto le elezioni presidenziali promettendo di ridurre le dimensioni dello Stato al minimo indispensabile e di azzerare il disavanzo pubblico, con tagli che hanno interessato l’intera amministrazione dello Stato, tranne i ministeri della Difesa e della Sicurezza. Dal 10 dicembre 2023 – giorno del suo giuramento come presidente – Milei ha chiuso 13 ministeri e licenziato (o non rinnovato il contratto di lavoro) circa 30mila dipendenti pubblici, l’equivalente di quasi il 10% della forza lavoro federale. Ha inoltre congelato i lavori pubblici – continua la ricercatrice – e ridotto i fondi destinati all’istruzione, alla sanità, alla ricerca scientifica e alle pensioni”.

Come se non bastasse, e con un approccio cinico tipico di un liberismo senza freni, sono stati ridotti gli aiuti alle mense dei poveri e tagliati i programmi di welfare. Una decisione che in una qualche misura ricorda la cancellazione del reddito di cittadinanza in Italia, attraverso il quale molte famiglie riuscivano a vivere malgrado la disoccupazione e salari ai limiti della decenza. Senza contare che in Argentina l’aumento dei redditi è stato vanificato da quello dei costi di beni di prima necessità che ha fatto scendere del 12% il potere d’acquisto dei salari.

Il paradosso è che questo calo ha colpito di più i ceti più poveri della popolazione argentina – 20% – e meno le fasce più ricche, che corrispondono anche in questo caso al 20% degli argentini e delle argentine. A questo dobbiamo aggiungere una riforma delle pensioni secondo la quale bisognerà avere almeno trent’anni di contributi per poter smettere di lavorare. Una tragedia, se consideriamo che il 44% della popolazione ha lavorato e lavora in un settore informale e precario, all’interno del quale maturare tre decenni di contributi è praticamente impossibile.

Ma questo disegno sciagurato che opposizione ha trovato nel Paese? A maggio Milei è stato costretto a negoziare, ammorbidendo alcuni punti delle sue riforme, venendo a patti con i governatori peronisti provinciali e regionali. Nello stesso periodo le piazze si sono mobilitate, grazie alla forza di molte organizzazioni sociali e dei sindacati dotati storicamente di una buona forza contrattuale. Settantadue università pubbliche, che significa più di due milioni e mezzo di studenti, si sono mobilitate contro un taglio del 72% del bilancio per il 2024 rispetto a quello dell’anno precedente. Il governo è stato così costretto a fare una sia pur timida marcia indietro. Riguardo all’istruzione Milei ha come modello quello introdotto in Cile durante la dittatura di Pinochet, che ricalca più o meno quello in vigore negli Stati Uniti.

Sempre a maggio la Cgt (Confederación General del Trabajo) ed altri sindacati hanno proclamato uno sciopero generale di ventiquattro ore che ha coinvolto tutti i settori del mondo del lavoro, compresi i lavoratori dei trasporti. Una mobilitazione analoga è stata indetta lo scorso 11 settembre dalle stesse sigle sindacali, mentre un mese dopo, ad ottobre, sono stati di nuovo i lavoratori e gli studenti universitari a riempire le piazze all’indomani della decisione di porre un antidemocratico veto presidenziale contro la legge sul finanziamento universitario votata dal Parlamento il 12 settembre. La legge prevedeva l’aumento delle spese di gestione delle università pubbliche, intorno al 10% del totale, ma soprattutto l’aumento degli stipendi di professori e personale non docente, che costituiscono il 90% del costo delle università.

L’Argentina, per ragioni politiche e macroeconomiche, è da almeno settant’anni in una situazione di rischio default se non di default tout court. Dunque i problemi vengono da lontano, e come è ovvio non possono essere attribuiti soltanto all’amico di Trump e Musk. “La tragedia argentina – dice sul quotidiano Avvenire Leonardo Becchetti, ordinario di Economia politica presso l’Università Tor Vergata di Roma – è quella di aver oscillato come un pendolo nella sua storia fra il ‘solo Stato’ del peronismo – (che pure ha garantito la gratuità di servizi essenziali come l’istruzione, ndr) – e il ’solo mercato’ del liberismo”.

Trovare una terza via sembrerebbe, allo stato attuale delle cose, impossibile. Ora come ora la priorità è comunque quella di limitare i danni prodotti dalle scelte di un uomo rappresentante di spicco di quell’estrema destra mondiale che riesce a coniugare il peggior populismo con il liberismo più selvaggio.